«La mia più che un’interruzione è stata una trasformazione. Il rapporto
con il Signore non si è mai fermato,
ed è sempre vivo, nella preghiera.
Adesso il mio altare è la strada e
la vita quotidiana nel mondo. Certo, mi manca
molto la comunità, la paternità di essere a disposizione
di tutti e la celebrazione della Messa, ma
sono sereno. E se ci fosse stata la possibilità non
avrei mai lasciato il sacerdozio». Don Giulio – lo
chiameremo così perché ci ha chiesto di non fare
il suo nome –, dopo essere stato viceparroco in
varie realtà e parroco per cinque anni in una città
di media grandezza del Centro Italia, da due anni
si è allontanato dalla sua congregazione religiosa
che ha servito per oltre quindici anni. «Voglio
mantenere ancora il mio anonimato», dice, «per
non creare scandalo, visto il ruolo che avevo e anche
perché ho ancora un po’ di tempo per decidere
se tornare o no, sto ancora ri
flettendo e credo
che vedere le cose da una certa distanza mi stia
aiutando a valutare le mie scelte con sincerità».
Don Giulio si sentiva realizzato come parroco,
ma il celibato gradualmente è diventato
un problema: «Iniziavo ad assaporare una vera
paternità spirituale con la comunità e vivevo in
pienezza il mio ruolo; ma sentivo anche molta
solitudine. Mi mancava un’unità con qualcuno,
certo ero unito con Dio, ma c’era anche la dimensione
umana e in quella mi sentivo scoperto». In
questo vuoto, nella vita di don Giulio si incastra
un sentimento per una persona, una donna che
lo aiuta in parrocchia e lo manda completamente
in tilt. «Ho cercato di custodirmi e di evitarla anche
con più attività, ho parlato con il mio padre
spirituale, con uno psicologo laico e con i miei
superiori, ma sono stato per lungo tempo in un
grande combattimento. In me c’era l’uomo sacerdote
e l’uomo laico, ma per tutti ero solo un
uomo di Dio. Il rapporto uno-molti mi portava
al sacerdozio, il rapporto uno-uno mi portava a
lei».
La pace arriva solo quando don Giulio con
un atto di coraggio si autosospende e chiede un
anno di ritiro spirituale che gli viene concesso.
«Ho fatto a cazzotti con Dio», racconta, «è stata
dura far passare la tempesta ma poi è cominciata
la quiete e adesso ho ancora poco tempo per
comunicare la mia decisione alla Chiesa. Quello
che posso dire è che c’è bisogno di accoglienza
anche per noi, e che il sacerdote è caricato di talmente
tante attese che mi sembra necessaria una
nuova consapevolezza da parte della Chiesa».
Un momento di crisi, quello di don Giulio,
che può capitare a tutti, come capita nelle migliori
famiglie e nei matrimoni più solidi. Le ragioni
possono essere le più diverse. L’Annuario
statistico vaticano parla, solo in Italia, di 43 abbandoni
nel 2013 e altrettanti nel 2014 su un clero
formato da 31.740 preti diocesani. E i numeri
sono simili per tutto il decennio precedente. Ma
questi dati si riferiscono ai presbiteri che chiedono
e ottengono la dispensa sacerdotale per
rimanere nella Chiesa cattolica, eventualmente
avere la possibilità di sposarsi in chiesa, e continuare
a ricevere i sacramenti. Don Francesco
Cosentino, che lavora alla Congregazione per il
clero, dice che le dispense richieste ogni anno a
livello mondiale sono circa 800. Quanti sono invece
quelli che vanno in crisi senza arrivare fino
all’uscita dal ministero? E quelli che se ne vanno
senza chiedere permesso e che non sono aiutati?
Questo sommerso è più difficile da quantificare.
Alberto (ormai non più don) ha 58 anni, è del
Nord Italia e ha lasciato l’abito sacerdotale più
di 8 anni fa: «Non so cosa sia successo, amavo la
mia parrocchia e la comunità ma a un certo momento
il mio ministero mi è sembrato sterile.
Tutte quelle cose che facevo, perché le facevo? A
chi erano utili e a chi cambiavano davvero la vita?
Ho cercato di parlarne con qualcuno ma o non
sono stato bravo a farmi capire o gli altri non mi
hanno voluto ascoltare. Avevo anche vergogna
o ritrosia ad ammettere che forse avevo fatto un
errore a entrare in seminario anni prima, perché
i miei genitori mi avevano fatto crescere all’ombra
della parrocchia e mi era sembrata, a quel
tempo, una scelta obbligata. All’inizio, non sono
riuscito a parlarne chiaramente e subito con i
miei superiori perché avevo visto come era stato
giudicato un altro amico prete che aveva avuto
una crisi. A un certo momento, forse anche per
la stanchezza emotiva, l’equilibrio si è rotto. Ora
c’è una donna nella mia vita, ma all’inizio mi sono
allontanato solo perché mi sentivo inutile.
A un certo punto volevo anche tornare sui miei
passi ma il vescovo me lo ha sconsigliato. Dopo
molte difficoltà, ora lavoro come operaio e sono
padre di un bambino».
Giovanni, ex prete lombardo, ha avuto la sua
crisi intorno ai 45 anni: «Mi piaceva fare il prete,
ma mi sono innamorato con la stessa intensità e
passione con cui avevo vissuto la preparazione
al sacerdozio. E non riuscivo a considerare le
due cose in contraddizione. Alla fine ho scelto
l’amore coniugale. Il mio vescovo ha capito e mi
ha garantito anche un sostegno economico per il
primo periodo, il vescovo emerito che mi aveva
ordinato mi ha accompagnato spiritualmente.
Ho sofferto invece per la durezza con cui hanno
reagito tanti laici e anche diversi miei confratelli:
i primi si sentivano traditi, i secondi apparivano
imbarazzati. La maggior parte non si è più fatta
sentire».
«I tentativi di negare i disagi dei preti sono
piuttosto forti», ammette don Enrico Parolari,
sacerdote e psicoterapeuta della diocesi di
Milano che con una équipe di altri professionisti
(sacerdoti, laici e religiose) si occupa di presbiteri
che vivono varie forme di crisi. «Si continuano a
liquidare le difficoltà come colpe dei singoli che
hanno perso spiritualità, le si considerano eccezioni
patologiche, le si delegano a interventi
psicologici disancorati dal progetto vocazionale.
Insomma: le tipiche mele marce in un cesto
di frutta complessivamente matura». E invece,
prosegue il prete psicologo, «occorre accettare,
almeno come ipotesi da vagliare, che le forme
di disagio – incluse le meno gravi – possano essere la punta di un disagio anche istituzionale»,
insomma, un problema di tutta la Chiesa, della
sua organizzazione, dell’identità presbiterale,
del carico di responsabilità dei sacerdoti, delle
relazioni interpersonali tra confratelli e tra preti
e vescovi.
Tuttavia, soprattutto negli ultimi
anni, secondo don Parolari si stanno facendo
importanti passi avanti nella presa di coscienza
del problema e infatti aumentano anche i preti
che riconoscono di aver bisogno di aiuto e non
solo per questioni legate al celibato: «Servono
interventi appropriati e non sono più accettabili
reticenze. Merito del motu proprio pubblicato
nel 2010 da Benedetto XVI sugli abusi perpetrati
da sacerdoti, ma anche di comunità ecclesiali
più consapevoli e dell’opinione pubblica più allertata.
Sta anche diventando prassi affidarsi alle
competenze professionali degli esperti – non c’è
più fobia della psicologia –, non si interviene più
solo per casi eclatanti o in presenza di processo
canonico o penale e, soprattutto, è più facile per
un prete comunicare le proprie difficoltà».
Ma, caduto un tabù, molto resta ancora da
fare perché le Chiese locali si attrezzino con luoghi
e personale adatto ad accompagnare i preti in
difficoltà. E, come don Parolari ha recentemente
denunciato in un articolo pubblicato sulla rivista
specializzata Tredimensioni. Psicologia, spiritualità,
formazione (Àncora editrice), occorre evitare
«la delega eccessiva a occuparsi dei casi gravi»
che i vescovi e i responsabili del clero fino a poco
tempo fa tendevano a «scaricare sulle poche
realtà gestite da religiosi che si facevano carico
delle situazioni difficili». Perché, «accogliere, interpretare
e accompagnare le difficoltà dai preti
non può essere un’operazione equiparata all’opera
del buon samaritano, ma chiede stili di responsabilità
istituzionali e di relazioni pastorali
che fanno parte del problema».
I pionieri nell’accompagnare e accogliere
i preti in crisi sono stati i padri Venturini che
gestiscono da decenni una comunità terapeutica
a Trento e da tempo sono attivi anche altri
centri legati a famiglie religiose. Una di queste,
la comunità Monte Tabor di Pomezia, è stata
visitata da papa Francesco lo scorso 17 giugno
durante una delle sue uscite nei “Venerdì della
misericordia” contribuendo ad alzare il velo sul
problema. Ora, finalmente, alcune Conferenze
episcopali regionali stanno avviando delle comunità
di vita per preti con finalità terapeutica.
Tuttavia la situazione è ancora a macchia di leopardo
e diverse regioni italiane sono del tutto
prive di questa attenzione qualificata, che del resto
non è possibile improvvisare in breve tempo.
le difficoltà, dal rispetto del celibato all'eccesso di impegni pastorali
Ma quali sono le ragioni per cui i preti vanno in “crisi”? È solo questione di difficoltà nel rispettare il celibato? «Un sacerdote che percorre il suo cammino di fede e di vita è un uomo come gli altri. Con la differenza che la vita del prete si identifica con il suo servizio», tiene a premettere don Parolari dal suo studio in centro a Milano. «È lo stesso stile apostolico della vita del sacerdote che lo espone a delle “crisi”». Un primo livello di problemi che vivono i preti in crisi («ma spesso i piani si intrecciano», spiega) è equiparabile al burn out di altre professioni: «Il passaggio da un eccesso di carico e impegni pastorali – oggi sempre più gravosi e complessi – al venire meno delle motivazioni che sostengono la vocazione». Poi ci sono i casi in cui «va in crisi l’equilibrio affettivo nella vita personale e nelle relazioni con la comunità»: dal prete che si innamora, vorrebbe vivere la sua relazione e desidera una paternità biologica, al «celibato che diventa “vita da single”, senza legami e reale cura delle persone». Altro livello riguarda sacerdoti messi sotto accusa per responsabilità penali (per incidenti occorsi in parrocchia o reati nella sfera economica…) e i casi di abusi sessuali. Infine ci sono i problemi di dipendenza da alcol, pornografia, gioco e internet.
Quanto agli interventi, don Parolari spiega che esiste un’ampia gamma di possibilità: dal semplice supporto psicologico e spirituale proseguendo il ministero, all’invio presso altri sacerdoti o famiglie accoglienti per un periodo di riflessione “tutelata”, alle comunità terapeutiche, fino al ricovero psichiatrico. «L’importante è che tutto nasca da un ascolto attento delle problematiche e della storia della persona e che si coordinino progressivamente gli interventi». Dopo un percorso rigoroso, per molti «l’aver affrontato e risolto la crisi può portare a una rinnovata responsabilità, maturità e consapevolezza delle proprie fragilità», con un pieno ritorno al ministero; per altri si valuta il rientro in servizio ma in un contesto più protetto; per altri ancora, «anche se è una scelta drammatica», l’esito migliore può essere l’uscita dal ministero sacerdotale.
Quando un prete decide di lasciare, deve scrivere ufficialmente ai superiori e fare domanda per ricevere la dispensa, che può essere concessa solo dalla Santa Sede. Il suo caso sarà valutato nel giro di un anno. Molte diocesi continuano a garantire per un certo periodo un reddito all’ex sacerdote, ma non mancano anche coloro che, magari a causa di incomprensioni e rotture durante il periodo di discernimento, si descrivono come del tutto abbandonati, persone cui viene negata anche l’opportunità di insegnare religione nelle scuole come possibile sbocco occupazionale. E qualcuno assicura persino di essersi sentito proporre dai superiori di continuare il ministero chiudendo un occhio sulle “scappatelle” amorose.
Fuori dalle istituzioni ecclesiastiche, ci sono anche alcune associazioni di ex preti che si occupano di aiutare quei presbiteri in difficoltà che magari non hanno il coraggio di parlare con i loro superiori o sono in un’impasse. Una di queste è Vocatio, associazione di preti sposati nata nel 1981 e fondata da Mauro del Nevio, ex prete di Livorno. «Siamo tutti ex preti a collaborare con l’associazione», spiega Ernesto Miragoli, ormai sposato da 30 anni. «Cerchiamo di aiutare chi ci chiama e affrontare le situazioni diverse che possono capitare a un presbitero, non solo quelle legate al celibato. Ci chiamano tantissime donne, e tanti preti si rivolgono a noi perché non sanno come muoversi, cosa fare, con chi parlare. Le difficoltà maggiori per chi sta pensando di lasciare sono di ordine economico, sociale e spesso la scelta è molto dolorosa. Si tratta di mettere in discussione una scelta di vita fatta per amore e fede. Si tratta di lasciare un mondo che si è amato. A volte per una donna, a volte per un’insoddisfazione pastorale o per altri motivi. In ogni caso, un prete che vuole uscire dal ministero non è riconosciuto nella società, spesso non ha una casa e non ha entrate economiche. Così ci chiede aiuto e noi proviamo a trovargli un lavoro e a indurlo a parlare con i suoi superiori se ancora non l’ha fatto o lo facciamo noi per lui. In trent’anni ho incontrato tantissimi vescovi per provare a stabilire un dialogo e porre l’attenzione su queste problematiche:tutti molto cortesi, magari ci ringraziano anche per quello che facciamo, ma non si è mai aperta una comunicazione ufficiale». Eppure quelli di Vocatio, che ogni anno ricevono circa 25 richieste di aiuto da preti in crisi, non vogliono rivendicare qualcosa ma solo offrire la loro esperienza e porre alcune problematiche all’attenzione della Chiesa. «Tanti presbiteri che si innamorano di una donna e che entrano in crisi non vorrebbero mai lasciare il loro abito sacerdotale ma sono costretti dalla legge ecclesiastica», spiega Miragoli.
Per questo ha suscitato entusiasmo tra loro la visita del Papa, lo scorso 11 novembre, a casa di un prete sposato dove si erano radunati altri sei ex sacerdoti con le loro famiglie. È sembrata un’apertura di sguardo misericordioso che altri vescovi sembrano non avere. «Le crisi possono capitare», dice invece monsignor Angelo de Donatis, poco più di un anno fa nominato da Francesco vescovo ausiliare di Roma (dopo aver predicato gli esercizi spirituali allo stesso Papa), che ha l’incarico della cura del clero. «Prima che vescovo, sono pastore e padre spirituale del seminario romano e di tanti presbiteri e certo mi sono capitate delle storie di questo tipo», racconta. «Un mio figlio spirituale, oggi ex prete, ha 4 figli e ancora ci incontriamo, siamo in perfetta armonia. Prima, se c’era una crisi, era più difficile ed è vero, poteva capitare di essere guardati con diffidenza da parte di alcuni, ma adesso qualcosa è cambiato, i preti in crisi sono accompagnati verso il loro discernimento. È importante parlarne subito, ai primi segni di disagio e confrontarsi, senza chiudersi nella solitudine. A volte se ne parla quando ormai è troppo tardi e non si riesce più ad aiutare la persona».
«Ora papa Francesco ha dato una grande spinta evangelica», continua monsignor de Donatis, «ed è importante saper entrare in dialogo con la cultura attuale che è molto cambiata, siamo nelle doglie di un parto, ma credo che porterà frutti molto belli. Il problema è che, in certi casi, anche noi preti ci siamo messi a seguire il mondo e invece quello che si deve notare entrando in una chiesa è la differenza con il mondo, io è questa differenza che cerco di sottolineare nel lavoro che faccio con i presbiteri».