La locandina del nuovo film di Checco Zalone, nelle sale dal 1 gennaio.
Checco Zalone sta dando gli ultimi ritocchi al suo quarto film, Quo Vado?, nelle sale dal 1° gennaio: «Fino a ieri ho lavorato sulle canzoni da inserire, perché quando vedo e rivedo il film mi sembra una schifezza e allora penso di migliorarlo con la musica. Poi però passa un amico, si mette a ridere e ti rincuora un po’. Insomma: psicosi è la parola esatta per descrivere come mi sento fino a quando uscirà».
C’è da capirlo. Il precedente Sole a catinelle ha superato i 50 milioni di euro al botteghino, diventando il film italiano con i maggiori incassi di sempre. Per cercare quantomeno di ripetere il successo, l’attore e sceneggiatore, assieme al fido regista Gennaro Nunziante, ha deciso di spedire l’eroe dei suoi film, che si chiama come lui, addirittura al Polo Nord.
Checco è invidiato da tutti perché, anche se ha un posto fisso, e per giunta statale nell’Ufficio provinciale Caccia e pesca, continua a vivere con i genitori e a evitare di sposare la sua eterna fidanzata per non prendersi delle responsabilità. Finché il Governo non decreta il taglio delle Provincie e così è costretto a scegliere tra la mobilità e il trasferimento. Accetta quest’ultima soluzione. Solo che, dopo aver girovagato in diverse località italiane, si ritrova in una base scientifica in Norvegia con il compito di difendere i ricercatori dall’attacco degli orsi polari. Un lavoro che esiste davvero. «L’abbiamo visto io e Gennaro Nunziante in un documentario. Avevamo già l’idea di fare un film partendo dalle conseguenze della riforma della Pubblica amministrazione e ci è sembrato divertente catapultare Checco fin lassù».
Prima di arrivare in Norvegia, Checco viene trasferito in posti al centro delle cronache: Lampedusa, la Sardegna degli scioperi, la Val di Susa delle proteste No Tav.
Usiamo una parola grossa: questo è il tuo film più “politico”?
«La parola mi terrorizza. Comunque probabilmente sì, ma noi lavoriamo affinché il “messaggio”, altra parola per me atroce, sia il più possibile un sottotesto. Il nostro resta un film comico, che prende spunto dalla realtà».
Comunque quale sarebbe questo messaggio?
«Alcuni miei amici intellettuali (sì, ne ho pure io...) hanno azzardato la celebre citazione del Gattopardo: cambiare tutto per non cambiare niente. Ma io ho minacciato di denunciarli se provano a dirlo in giro».
E le tue canzoni di cosa parlano?
«Per La Prima Repubblica non si scorda mai mi sono ispirato al grande Adriano Celentano ed è una ironica dichiarazione d’amore verso i simboli di quegli anni: dalle verande condonabili ai castelli a equo canone. Nell’altra, Italiano boy, per la prima volta canto in inglese per raccontare i pregiudizi delle donne straniere verso gli uomini italiani».
Gli spettatori come faranno a capire il testo?
«Infatti ci sarà un’avvertenza: chi non sa l’inglese, è inutile che venga al cinema. No, dai, si capisce: “I’m an italiano boy, like Leonardo and Galilei”».
È vero che in questo film non ci sono parolacce?
«Sono stato in cura per mesi: è come smettere di fumare. Ma alla fine ci sono riuscito: ce ne sono poche e non feriscono nessuno».
Il film dura meno di un’ora e mezza. Sei quindi molto severo verso te stesso?
«Severissimo. Taglio tutto ciò che non mi convince. Del resto, anche i film di Woody Allen durano poco: si vede che ha copiato da me».
Come ti sei trovato in Norvegia?
«Con Gennaro abbiamo cercato di evitare il più possibile gli stereotipi sui Paesi nordici, ma quando siamo arrivati lì ci siamo accorti che era pure peggio di quanto immaginassimo. Per un mese non abbiamo sentito un clacson, non abbiamo visto un’auto superare il limite di 70 chilometri orari e pioveva sempre. E poi la gente: stanno tutti bene economicamente, ma hanno spesso delle facce così tristi».
A settembre hai duettato con Francesco De Gregori all’Arena di Verona. Siete diventati amici?
«Sì e ho scoperto una persona molto diversa da come la immaginavo. Mi ha invitato a casa sua e non solo è stato simpaticissimo per tutto il tempo, ma ha cucinato una cacio e pepe davvero eccezionale».
Dopo aver finito il film, tornerai in Puglia per Natale?
«Sì, il Natale in famiglia è sacro, anche se quest’anno vivremo un dramma. Ora che ci penso: molto più del film, mi rende ansioso dover dire a mia zia che per la prima volta non passeremo la sera della Vigilia a casa sua perché ora ho una figlia ed è giusto andare dai nonni. Dovrò prepararla pian piano, oppure farle inviare un messaggio da Maria De Filippi... Però il pranzo di Natale lo faremo da lei».
Ci tiene così tanto perché è lei che cucina?
«Sì. E poi ha un mangiacassette vecchio di quarant’anni con un’incisione degli anni Trenta di Tu scendi dalle stelle: ci costringe a cantarla su e giù per tutto il palazzo».
Hai già pensato al regalo da fare a tua figlia Gaia?
«Lei vorrebbe un chihuahua. Io le ho detto di sì, senza specificare che sarà solo un pupazzo, perché non avrei tempo per badare a un animale vero».
Al Sud durante le feste quando ci si riunisce si gioca a carte. Lo farete pure voi?
«I miei familiari sì. Io invece, siccome detesto assolutamente farlo, mi limiterò ad assistere. Anzi, qualcosa farò. Mia zia ha una tombola senza pedine e io avrò l’incarico di spezzettare le bucce dei mandarini da usare al loro posto. Questo sarà il mio passatempo di Natale».
Una volta hai detto che avresti smesso di fare il comico prima di compiere cinquant’anni. Confermi?
«Potrebbe anche accadere prima. È difficilissimo far ridere e con il passare degli anni lo diventa ancora di più. Potrei dedicarmi alla scoperta di nuovi talenti».
Non potresti interpretare ruoli drammatici?
«Soltanto alcuni grandissimi come Alberto Sordi ci sono davvero riusciti. Io non credo assolutamente di esserne capace».