Inchiesta: la città 10 anni dopo le Olimpiadi invernali. Bilancio tutto sommato positivo. Turismo in crescita. Addio grigiore. Qualche rimorso per gli impianti spenti e per il villaggio, oggi preda del degrado. Viaggio nei luoghi dei Giochi.
Vent’anni fa i torinesi guardavano la Mole e vedevano la punta di una città laboriosa, grigia e industriale. Oggi la guardano e vedono l’ascensore aereo del Museo del cinema e con lui la vetta di una città bella, allegra, scoperta dai turisti come un salotto “inaspettato” di piazze barocche, caffè, musei, mostre da milioni di biglietti l’anno. Vent’anni fa, se qualcuno avesse previsto tutto questo, i torinesi avrebbero commentato “esagerùma nen”, non esageriamo, e sarebbero tornati alle loro faccende. Oggi vanno al Museo Egizio, restaurato con grande cura e successo in proporzione, alzano la testa su piazza San Carlo e sulla reggia di Venaria, dicendosi che sì, quelli del New York Times (che l’hanno segnalata come unica città italiana da visitare) hanno proprio ragione. E, la domenica, vanno allo struscio in via Lagrange diventata pedonale.
A distanza di dieci anni, lo dicono i cittadini e lo ammettono gli studiosi, la passione che ha abitato Torino nei giorni olimpici dal 10 febbraio del 2006, non se n’è andata con la cerimonia di chiusura, ma ha contribuito a cambiare pelle alla città. Maurizio Crosetti, che da cronista allora ha giocato in casa, la descrive come «una ragazza appena sbocciata che, dopo il primo complimento, si scopre allo specchio più bella di come si sentiva».
«In una città olimpica», spiega Alessandro “Chito” Guala, che studia la ricaduta dei grandi eventi sulle città, docente di City marketing all’Università di Torino e cofondatore del database della didattica Omero, «l’eredità si misura a distanza di 7-8 anni, quando si capisce se il trend del turismo resta in crescita, come a Torino. Il vantaggio che i Giochi possono portare, ma il progetto dev’essere a lunga scadenza prima e dopo, è una visibilità nuova di cui Roma, Parigi, Londra magari non hanno bisogno. Il bilancio su Torino è positivo».
Certo non è oro, argento e bronzo tutto ciò che riluce, nessuno nega le criticità. L’ex villaggio olimpico, con tre palazzine abbandonate e occupate da anni da centinaia di profughi, crea un contesto complicato a chi abita e lavora lì e nei dintorni. La pista di slittino di Cesana Pariol e i trampolini di Pragelato si sono arresi, per insostenibilità economica, a perdere la funzione per cui sono nati: Fondazione XX marzo, ramo pubblico (10%) di Parcolimpico Srl, società pubblico-privata, che gestisce gli impianti post olimpici, parla di progetti (al momento embrionali) di concerto con gli enti locali: «Per riqualificare le aree e perché possano continuare a funzionare come strutture d’allenamento almeno il pistino di spinta del bob e i trampolini minori».
CICATRICI E BUONI PROPOSITI Il ricordo, diceva Giovanni Arpino, comincia con la cicatrice: la ferita di Cesana è a forma di serpente, quella di Pragelato un graffio di gatto nella montagna e sono destinate a bruciare ancora. Altri impianti, come l’Oval e il Palavela, vivacchiano o sopravvivono con nuove destinazioni; altri ancora, come l’ex PalaIsozaki, vanno a gonfie vele per eventi e concerti. A Pinerolo si gioca ancora a curling, a Pragelato si fa ancora sci di fondo ma senza più gare internazionali.
Per gli impianti più invasivi il problema è a monte: «Capire se e quanto i Giochi malati di gigantismo valgano una candela così onerosa a fronte di sport praticati da pochi eletti», spiega ancora Guala, «molto dipende dalla pianificazione precoce del dopo».
Torino, nel bene e nel male lo dimostra: le arcate del Moi languono nell’attesa che trovi forma e fondi il progetto di un centro didattico e di ricerca in ambito biomedico, che oggi Ezio Ghigo, direttore della Scuola di Medicina, definisce «un auspicio, perché il Politecnico ha allocato fondi per partire ma il Cda dell’Università di Torino ancora no». La residenza di via Borsellino, ex villaggio media, che oggi ospita studenti universitari ha un presente utile e credibile: alle pareti sono rimasti i pannelli Torino 2006, e nell’ufficio di direzione pende una mascotte, ma non è Neve e neppure Gliz: viene da Pechino 2008, portata da una studentessa cinese.
Un segno di continuità, a suo modo; un messaggio nella direzione dello spirito della festa olimpica che la città di Torino celebrerà tra il 26 e il 28 febbraio con il motto: “Il viaggio continua”. Dove viaggio è tante cose: debiti da cui rientrare certo, la linea 2 della metro «corta» dicono i torinesi ma figlia dei Giochi da “sbloccare”, una città viva che non si vuole fermare.