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In italia sono un milione e 400 mila le persone colpite da demenza senile, di cui quasi 700 mila a causa dell’Alzheimer. Nel mondo, secondo un report dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, i casi di demenza sono 55 milioni, destinati a triplicarsi entro il 2050. Numeri impressionanti, dovuti anche al fatto che terapie davvero efficaci, al momento, non ne sono state ancora trovate. «Uno dei motivi di questo “ritardo” rispetto, per esempio, alla lotta al cancro, è che ad oggi meccanismi che generano questa patologia non sono ancora stati chiariti», spiega il dottor Giuseppe Di Fede, neurologo, responsabile del Laboratorio di Genetica e Biochimica delle Demenze, dell’Istituto Carlo Besta di Milano. Ma un dato sembra essere certo: il livello di complessità dell’Alzheimer fa pensare che non basti un approccio contro un singolo bersaglio molecolare per contrastare efficacemente la malattia. «In altre parole, gli attori coinvolti nelle demenze senili sono più d’uno, quindi potrebbero risultare molto utili all’interno di specifici trial clinici, strategie combinate, rivolte non solo contro la proteina beta-amiloide (il cui accumulo attorno ai neuroni è associato al morbo di Alzheimer, ndr) ma anche contro altri bersagli molecolari».
Proprio il dottor Di Fede e l’istituto Besta, con i colleghi dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri, nel settembre scorso hanno pubblicato i risultati di una ricerca da loro condotta che illustra i promettenti risultati per la cura della malattia in fase precoce, grazie all’utilizzo di una nuova molecola, finora testata su modelli animali. Abbiamo incontrato il neurologo durante un convegno sul tema tenutosi a Noventa di Piave, promosso dall’associazione socio-culturale “Four” di Musile di Piave.
Di che si tratta, dottore?
“Di un peptide, cioè una molecola che, somministrata per via intranasale, è in grado di evitare l’accumulo delle placche amiloidi nel cervello. Già nel 2009 avevamo identificato questa variante genetica della proteina beta-amiloide che, invece di essere fattore di rischio per lo sviluppo della malattia, funge da protettore: questa piccola molecola, formata da sei aminoacidi, cioè, sembra in grado di neutralizzare l’azione neurotossica su neuroni e sinapsi della beta-amiloide che si accumula sulle cellule. Abbiamo studiato il modello in vitro e poi sperimentato la molecola su animali, prima nei vermi e poi nei topi. Gli effetti del peptide ci hanno confermato l’azione bloccante sulla degenerazione cellulare, tenendo invece integre le sinapsi».
Controindicazioni ed effetti collaterali indesiderati?
«Pare non essercene. Anzi il trattamento sembra non causare le infiammazioni e gli edemi che derivano da un’anomala attivazione del sistema immunitario, riscontrate usando altre terapie per l’Alzheimer. Inoltre risolverebbe in modo semplice il problema di portare il farmaco al cervello del paziente: la via intranasale, dal punto di vista sanitario, sarebbe molto vantaggiosa ed eviterebbe la necessità di ingerire pillole o trattamenti per via endovenosa».
Altri punti di forza di questo nuovo approccio terapeutico?
«Il suo costo di produzione contenuto, specie se si confronta con gli anticorpi monoclonali la cui produzione è costosissima. Proprio a causa di ciò è accaduto, in passato, che alcune ditte farmaceutiche produttrici di questi anticorpi, dimostratisi poi poco efficaci nella terapia anti-Alzheimer, abbiano addirittura rischiato il fallimento a causa degli enormi investimenti effettuati».
A proposito di investimenti, è vero che non c’è gara tra le risorse investite per la lotta contro il cancro e quella contro l’Alzheimer, a favore della prima?
«E’ assolutamente vero. Esistono, comunque, centinaia di farmaci per contrastare l’Alzheimer in sperimentazione già sull’uomo. In particolare, potrebbe essere imminente in Europa l’autorizzazione all’uso nella pratica clinica di alcuni anticorpi monoclonali di nuova generazione (già approvati negli Stati Uniti) per la cura dell’Alzheimer. Dopo la pandemia la ricerca ha ripreso a correre: non solo per nuovi farmaci, ma anche per introdurre nuovi bio-marcatori, capaci di intercettare la malattia a stadi sempre più precoci».
Previsioni per l’introduzione del farmaco, se la sperimentazione proseguisse positivamente?
«Di certo ancora alcuni anni, perché siamo ancora alla fase pre-clinica. Dobbiamo verificare quali possano essere gli effetti collaterali. Infine individuare una partnership farmaceutica che supporti lo sviluppo del farmaco».



