È morto all’età di 54 anni Antonio Giuseppe Malafarina, poeta, scrittore, giornalista (anche per la nostra testata BenEssere), esponente di quel “mondo della disabilità” che, anche grazie a lui, è diventato in questi anni meno marginale, più inclusivo. Era da 36 anni tetraplegico, una delle persone che, al mondo, ha vissuto più a lungo in questa condizione. Lui lo ricordava benissimo quel tuffo al mare: l’amata Bovalino, dove la famiglia tornava ogni estate da Milano, i 18 anni dell’incoscienza e dell’allegria, una gita in spiaggia con gli amici, in uno degli ultimi giorni d’estate («Stavo prendendo la patente di guida», raccontava, «mi mancava l’esame di pratica…»), quando tutto sembra possibile e la vita è una sfida, da cogliere a morsi. E invece…

Invece, ci fu uno spuntone di roccia. Sopravvisse grazie a un amico, che vide una pozza di sangue in acqua e urlò a squarciagola. Trafelato arrivò Bruno (il padre, amorevole, dolcissimo, generoso, così come la mamma Pina, un piccolo presepe laico nella quotidianità grigia delle sofferenze umane). Da allora, la storia di Antonio Giuseppe (guai a chiamarlo soltanto con uno dei due nomi!) diventa, per sua volontà, pubblica. Si salva, questo ragazzone bello e forte, dagli occhi profondi e grandi, il sorriso ampio e l’intelligenza spiccata. E, invece di ripiegarsi in sé stesso, senza poter più muovere neanche un muscolo del corpo, cerca di impegnarsi per cambiare una società che mette all’angolo chi ha una disabilità, che spesso non accoglie, quasi mai supporta, non sa offrire soluzioni, alternative, spazi di inclusione e accessibilità, per un mondo senza barriere né discriminazioni. «Se soltanto ci fossero date possibilità di vivere degnamente», diceva, in tempi non sospetti, «le persone nella mia condizione non chiederebbero di morire». Antonio Giuseppe era “fortunato”, perché circondato da professionisti, medici, infermieri e fisioterapisti che trattava come familiari. Ma, soprattutto, poteva contare sull’amore incondizionato dei genitori, dei cugini (Tiziana in particolare, che fino all’ultimo gli ha “lavato le ferite”), dei tanti amici che si innamoravano letteralmente di lui (era sempre di un’eleganza antica, con cravatta e foulard di seta raffinatamente annodati, anche d’estate).

Gli amori di Antonio Giuseppe sono racchiusi nella dedica da lui scritta all’incipit del suo libro (Antonio Giuseppe Malafarina, Poesia, Rayuela Edizioni, 2016, euro 15): “Ai miei genitori, senza cui non sarei vivo. Al prossimo, senza cui non sarei visionario. A Dio, senza cui non sarei vertigine”. I genitori, il prossimo e Dio: interlocutori quotidiani di speranza, con i quali intesseva un dialogo costante e serrato, a volte amorevole, a volte inquieto, ma sempre fecondo. Per lui, i genitori erano ovviamente tutto: Bruno aveva adattato un furgone, per portarlo in giro; e Pina cucinava manicaretti sublimi. Quando, un anno, rimasi sola a Milano il giorno del mio compleanno, furono loro a organizzarmi la festa: noi quattro, una famiglia del cuore, che ci eravamo scelti per affetto. Al padre dedicò dei versi: “Quando lo vedo annientarsi per me/ nella sua vecchiaia per quel figlio che gli deve la vita/ mi commuovo in quanto/ io lo amo forte il mio papà”.

Nella sua attività di giornalista (oltre a BenEssere, collaborava anche per il blog Invisibili, del Corriere della Sera, ed era direttore responsabile del portale Superando), trattava i temi della disabilità senza pietismo, ma in maniera approfondita, precisa, di qualità e lungimirante (è anche frutto del suo impegno la prima guida in Italia realizzata per promuovere una comunicazione adeguata e rispettosa, intitolata “Comunicare la Disabilità. Prima la persona”. Ed era presidente onorario della Fondazione Mantovani Castorina, ma anche uno dei protagonisti del Festival delle abilità). Da persona intelligente e colta, era molto attento al linguaggio: diceva “persona con disabilità”, invece che disabile o, peggio, diversamente abile; carrozzina, invece che carrozzella («Con la carrozzella ci vai in giro per Roma, trainata dai cavalli…»). Era ironico, di un umorismo intellettuale, ragionato, acuto. Oltre alle poesie, scriveva aforismi: “Se son rose… appassiranno” mi è sempre sembrato irresistibile. Ma era anche di una dolcezza enorme, seppur non scontata o “cioccolatinosa”: a tutte le sue amiche, rivolgeva un augurio in un giorno a caso dell’anno, non l’8 marzo, per non sembrare, appunto, banale.

Per necessità prima, per vivacità intellettuale dopo, si era appassionato di tecnologia (ha seguito lo sviluppo del progetto Dama, Disabled Advanced Medical Assistance, all’interno dell’ospedale San Paolo di Milano), soprattutto quando serviva a migliorare la vita di persone con disabilità: «Io in Calabria sono un emarginato», rifletteva, evidenziando come la tecnologia non fosse purtroppo fruibile per tutti. «Qui a Milano, invece, le persone nelle mie condizioni possono essere “attive”». E lui lo era, attivo, eccome. Non poteva camminare né muovere braccia e mani, ma utilizzava il riconoscimento vocale per scrivere al computer (è stato uno dei primi in Italia a usarlo, già nel 1992, e la sua stanza era il suo quartier generale), una carrozzina che muoveva con un joystick azionato con la lingua (andava a 8 km orari e aveva ben 4 marce), è stato pioniere per l’impiego di uno stimolatore diaframmatico, per respirare, e di un avatar, per “muoversi”. Era anche molto attivo sui social, soprattutto Facebook, doveva aveva aperto un gruppo dedicato al silenzio, che aveva molte visualizzazioni. In un’altra poesia, aveva così commentato la sua condizione: “La paralisi/ è una guerra dura/ di trincea./ Non vince mai nessuno/ al più si negozia una tregua armata”.

In definitiva, la sua era una lotta soprattutto per l’inclusione sociale e lavorativa. In un suo articolo aveva scritto: «Vorrei che ci fossero delle politiche serie per consentire alle persone con disabilità e ai loro familiari di esercitare la loro autodeterminazione, di essere autonome. Abbiamo bisogno non tanto di soldi, ma di un lavoro, abbiamo bisogno di infermieri che vengano a casa per assistere le persone che ne necessitano, vogliamo poter usufruire di un turismo accessibile. Non chiediamo assistenzialismo, ma investimenti che possano permettere a noi e alla società di stare meglio». Era questo uno dei temi che più lo addoloravano: l’assistenza. Lui, che poteva contare su due genitori coraggiosi, sempre presenti, dei veri Cirenei, pensava a chi non aveva la sua opportunità (tra le sue poesie, ce n’è una, “Ho deposto la mia croce”: Ho deposto la mia croce/ sulle spalle dei miei/ (…) che sorreggono il mio corpo/ con il loro costante, inarrestabile/ amoroso sacrificio./ (…) Signore, Signore mio, ascoltami:/ dammi la forza di donare gioia ai miei genitori/ e di tenere i legni con i loro chiodi/ ben infilzati nelle miei membra/ (…) che il percorso che la vita mia ha riservato/ non si depositi su altri./ Soprattutto su di loro/ che sono quanto di più prezioso io abbia/ grazie a te.).

E rifletteva sulle disparità di trattamento, anche economico, che lo Stato assicura a una persona disabile ricoverata in ospedale o a casa. Antonio Giuseppe non smetteva, con i suoi articoli, di pungolare la burocrazia (asfissiante, per chi è nelle sue condizioni) e la politica: fu uno dei primi a invocare la legge del “Dopo di noi”. Legge che non gli sarebbe servita: se ne è andato prima dei suoi genitori. Per ironia della sorte (lui che di ironia viveva), è morto proprio il giorno della Giornata del malato. La sua morte è stata inaspettata. Certo, aveva avuto una crisi a dicembre, ma eravamo abituati tutti a peggioramenti episodici. Se l’era vista brutta, indubbiamente. In un post su Invisibili, il giorno di Natale, aveva scritto: «Cos’è la morte? Non lo so. Ma so benissimo che cosa la precede. Non bello. Non bello». Tuttavia, lo avevo sentito pochi giorni fa, e non gli avevo dato peso. E invece… Invece Antonio Giuseppe è morto. E io so che è già in Paradiso, perché il Purgatorio lo ha già scontato su questa terra. E continuerò a sentire nell’aria le sue frasi ironiche, come una coperta che mi avvolge.

Un sorriso (come chiudeva lui, tutte le mail e i messaggi).

 

 

 

 

 

Benedetto sia l’uomo

che attinge alla tua fonte

e quella donna

che al tuo parere aspira.

Benedetto il padre

che ti chiama figlia,

il bimbo che ti dice “mamma”

e la madre

che t’ha generata.

Benedetto ogni fratello

e sorella che hai nel mondo

e cui il tuo sorriso giunge.

Benedetto Dio

che t’ha suggerita

e la storia che t’ha plasmata.

Benedetta la natura,

il vento, il giunco e il topo

che il tuo senso avverte

e benedetto io che t’ho veduta.

Ma più di ogni altro benedetta tu

Che sei bella come l’acqua.

(Antonio Giuseppe Malafarina, Poesia, Rayuela Edizioni, 2016, euro 15).