Kamala Harris o Donald Trump. Il 5 novembre i cittadini americani sono chiamati a votare per il nuovo presidente che prenderà il posto di Joe Biden. E gli occhi del mondo sono puntati su questa sfida - strenuamente combattuta e dagli esiti molto incerti - perché, nonostante viviamo in un'epoca di multilateralismo, in cui nuovi attori e nuove potenze economiche si sono imposti da protagonisti nello scenario internazionale - a partire dai Brics, il gruppo delle economie mondiali emergenti, Brasile, Russia, India e Cina, ai quali nel 2024 si sono aggiunti Sudafrica, Egitto, Emirati arabi uniti, Etiopia e Iran - ,  ciò che accade negli Stati Uniti si riflette inevitabilmente e in modo deciso sul resto del pianeta. Chiunque ottenga la vittoria alle urne. Ma qual è oggi il ruolo dell'America nel contesto globale, segnato da gravi crisi e conflitti? E come influiranno queste elezioni sui rapporti con l'Europa e con gli altri Paesi, primo fra tutti la Cina? A delineare un quadro è Gianluca Pastori, professore associato di Storia delle relazioni politiche tra il Nord America e l'Europa della Facoltà di Scienze politiche e sociali dell'Università Cattolica di Milano, nonché analista dell'Ispi-Istituto per gli studi di politica internazionale.

La guerra in Ucraina e quella in Medio Oriente, i rapporti con l'Unione europea, quelli con la Cina. Professor Pastori, che bilancio possiamo fare dell'operato del presidente uscente Joe Biden in politica estera? 

«Come tutte le amministrazioni, quella di Biden ha avuto dei momenti di luce e altri di ombra. Possiamo dire che Biden sotto certi punti di vista è stato un presidente sfortunato, perché ha vissuto dei momenti molto difficli, molto di più di quelli vissuti, ad esempio da Barack Obama o ds Bill Clinton. Biden ha dovuto gestire la guerra in Ucraina, la vicenda di Gaza e in entrabi i casi il suo operato ha avuto luci ed ombre, più ombre nel caso di Gaza, più luci nel caso dell'Ucraina. Ha dovuto gestire queste crisi acute in una fase di indebolimento del ruolo internazionale degli Usa. Un ruolo che ha avuto un declino in modo consistente a partire dagli anni Duemila, in modo particolarmente grave dopo la crisi economica del 2007-2008. Quello che negli anni '90 si chiamava unipolarismo americano è entrato in crisi e ha portato una serie di sfide, come quella della Russia e e quella della Cina. Oggi gli Usa non sono più il Paese degli anni '90, che veniva ascoltato dalla comunità internazionale. Biden ha cercato nei limiti del possibile di difendere il ruolo statunitense pur avendo a disposizione sempre meno mezzi. Gli Stati Uniti oggi sono molto più deboli rispetto al passato».

E le relazioni con l'Europa?

«Per un periodo Biden è stato un presidente molto amato in Europa, in qualche modo ha dato l'illusione all'Europa che si potesse tornare a un rapporto positivo, sicuramente migliore di quello che c'è stato negli anni di Trump, negli anni di G. W. Bush e per certi aspetti anche in quelli di Obama che, nonostante la mitizzazione, non sono stati anni di forte consenso fra Europa e Usa. Tuttavia poi anche Biden è caduto in quella che io chiamo la trappola degli interessi divergenti: gli Usa hanno interessi profondamente diversi da quelli dell'Europa e in parte incompatibili, con conseguenze a livello mondiale. E l'ordine internazionale liberale - quello nato dopo il 1945, incentrato su Onu e multilateralismo - si fonda storicamente sulla convergenza fra posizione americane ed europee. Biden ha dovuto gestire, da una posizione di debolezza, un ordine internazionale che promuoveva sempre di meno gli interessi americani. Ora bisogna capire come questa situazone di crisi verrà gestita da chi arriverà alla Casa Bianca».

Ritiene che la gestione della politica estera Usa di Donald Trump e quella di Kamala Harris siano nettamente distanti? Il modo di gestire i rapporti internazionali, anche in riferimento alle guerre attuali, è molto diverso?

«Sul lungo periodo non vedo una enorme differenza. Ciò che si può prospettare è che gli Stati Uniti saranno sempre più, diciamo così, egoisti, vorranno essere sempre più auonomi e promuovere sempre di più i loro interessi, in un sistema internazionale che non si fonderà più sulla centralità degli Usa e nel quale l'America sarà dei grandi contendenti, non più il perno del sistema. A breve termine invece dobbiamo aspettarci una transizione molto più brusca e brutale nel caso di vittoria di Trump, una transizione molto più soft con Harris. Prendiamo ad esempio la Cina: Trump ha detto chiaramente che il vero nemico degli Usa è Pechino e che per vincere questa competizione gli Usa devono ridurre il loro impegno in altri scenari per loro adesso meno importanti - l'Europa, l'Ucraina, il Medio Oriente - per concentrarsi sulla Cina. Harris - in linea con la politica di Biden - riconosce che la Cina è un rivale, ad esempio nella questione del potenziamento tecnoligico, ma un contendente con il quale esistono spazi di dialogo, soprattutto nel campo degli armamenti. E comunque, indipendentemente da chi vincerà, noi europei per gli Stati Uniti saremo sempre meno importanti». 

Alla luce di questo scenario, è dunque ancora lecito definire gli Stati Uniti come la prima potenza mondiale?

«Dipende dai contesti. Gli Usa sono la prima potenza al mondo certamente a livello militare. Ma se guardiamo alla loro tradizionale capacità di proiettare soft power, questa è in fase di ripiegamento. Certamente la posizione egemonica di cui gli Stati Uniti hanno goduto storicamente fino ad oggi è sempre più chiaramente sfidata».

Non le sembra che lo scontro in campagna elettorale - con offese reciproche e attacchi personali - sia arrivato a livelli altissimi, molto di più che nelle elezioni precedenti?

«Il rally di Donald Trump al Madison square garden di New York (con offese di stampo razzista) è stato imbarazzante, aldilà di qualunque limite della decenza. In realtà, Trump ha sempre fatto dell'attacco personale uno strumento di propaganda, in precedenza per fare fuori gli altri candidati repubblicani alla nomination, e per sconfiggere Hillary Clinton nel 2016. Indubbiamente quest'anno si sono visti toni diversi. Trump ha scoperto che questa strategia paga: al suo elettorato piace. Al Madison square garden, infatti, la gente presente ha applaudito. Il sistema politico americano oggi è molto più polarizzato di quanto non sia stato negli anni passati. D'altro canto, anche i democratici che accusano Trump di essere nazista usano a loro volta lo strumento dell'offesa personale. A lungo termine tutto questo pone certamente il problema della qualità del dibattito democratico».

Come si spiega la scarsa affluenza che caratterizza storicamente le presidenziali americane? Pensiamo che il record di votanti è stato segnato dalle elezioni del 2020 (vinte da Biden), quasi il 67%, comunque una percentuale bassa, rispetto ai nostri stardard.

«La questione della bassa affluenza è legata a due ragioni: in primo luogo l'elettore americano è più interessato al voto locale, della contea, del proprio Stato. Il presidente continua a essere percepito come un'istituzione, per così dire, lontana, anche a causa del meccanismo elettorale indiretto, a doppio livello. Inoltre, negli Usa non esiste una legislazione elettorale federale. Altro elemento, i cittadini non ricevono un certificato elettorale, devono andare a iscriversi nei registri. Dunque la partecipazione politica resta una scelta individuale del singolo cittadino, il quale decide di votare se pensa di avere un interesse effettivamente in discussione. E questo è avvenuto proprio nel 2020 - Joe Biden contro Donald Trump - quando sia i repubblicani che i democratici hanno inquadrato l'elezione come una "lotta per l'anima degli Stati Uniti", davvero cruciale per i cittadini». 

Pensa che gli elettori americani siano pronti a una presidente donna?

«Una parte degli Stati Uniti - repubblicana - è ancora visceralmente contraria all'idea di un presidente donna e di colore. Ma c'è anche una parte di elettorato democratico che non è pronta a una donna presidente e la accetta semplicemente perché l'alternativa è Donald Trump. Questa è effettivamente la difficoltà che Kamala Harris dovrà affrontare se sarà eletta: essere riconosciuta come autorevole non solo dall'oppsizione ma anche agli occhi di una fetta importante del suo stesso partito».

(Foto in alto Reuters: Kamala Harris e Donald Trump)