«Qui sta diventando sempre più freddo e i blackout dell’elettricità nelle case diventano sempre più prolungati. Ma per questo inverno speriamo per il meglio». Anya, 25 anni, insegnante di inglese in una cittadina della regione di Kyiv, si fa forza, mentre racconta come sta vivendo in questi giorni in Ucraina. Non vuole perdere la speranza. Eppure, nonostante il gelo non sia ancora arrivato, in Ucraina è già inverno. Il Paese è ancora terribilmente scosso dall’ennesima massiccia offensiva russa che, all’alba del 19 novembre, ha preso di mira Leopoli e Ternopil, con una tempesta di 470 droni e 47 missili.

A Ternopil si è consumata una strage: trentuno abitanti sono morti, tra cui diversi bambini, quasi cento sono i feriti, molte persone risultano ancora disperse. L’attacco russo nell’Ovest del Paese, alle porte dell’Europa, ha costretto la Polonia e la Romania a far alzare i loro caccia in volo per proteggere il loro spazio aereo. Il messaggio di Mosca è chiaro: tutto il territorio ucraino resta nel mirino, bersaglio dei russi. Nessuna regione, comprese quelle più lontane dal fronte, possono ritenersi al sicuro. Le forze russe continuano la loro avanzanta nell’Est, nel Donetsk, nella regione di Zaporizhzhia, nell’oblast di Kharkiv, dove hanno annunciato di avere preso, di nuovo, Kupiansk, anche se Kyiv smentisce la notizia. L’obiettivo di Mosca è conquistare più terreno possibile e consolidare la propria posizione in punti strategici, sui quali fare leva in vista di un possibile processo negoziale.

Intanto, a Kyiv e nell’Unione europea dominano forte preoccupazione e nervosismo per il piano in 28 punti proposto da Washington per mettere fine alla guerra. Più che un piano di pace, una richiesta a Kyiv di resa, secondo numerosi osservatori e buona parte degli ucraini. Perché, tra le varie proposte - tra le quali la conferma della sovranità dell’Ucraina e la garanzia che la Russia non invaderà i Paesi vicini - la bozza di accordo prevede che l’Ucraina rinunci completamente al Donbas – Donetsk e Luhanks – inclusa la parte ancora sotto controllo ucraino (che diventerebbe zona-cuscinetto, smilitarizzata), alla Crimea, ad ampie porzioni degli oblast di Zaporizhzhia e di Cherson, stabilite sulla base della linea del fronte attuale. Inoltre, Kyiv sarà libera di entrare nell’Unione europea, ma non dovrà mai entrare nella Nato, dovrà accettare di ridimensionare ampiamente il suo esercito (limitato a 600mila uomini), non potrà ospitare sul proprio territorio nazionale truppe dei Paesi occidentali e gli aerei da combattimento a difesa dell’Ucraina saranno schierati in Polonia, limitando così la capacità di deterrenza nei confronti di possibili future azioni russe contro il Paese.  L’Ucraina dovrà accettare di non essere uno Stato dotato di armi nucleari. Il piano parla poi delle prossime elezioni in Ucraina, delle questioni umanitarie, dello scambio di prigionieri, ostaggi e detenuti civili, prevede un pacchetto di misure per la ricostruzione del Paese.

«Chiediamo una pace dignitosa, che rispetti la nostra sovranità e la dignità del popolo ucraino», ha affermato il presidente Zelensky, che si è detto disposto a discutere della bozza di accordo con Washington. Mentre l’Unione europea lavora a una bozza di controproposta con condizioni più favorevoli a Kyiv, Putin approva il piano proposto dagli Usa – che di fatto accetta tutte le richieste di Mosca – e Washington lancia un ultimatum all’Ucraina: se entro il 27 novembre, Festa del ringraziamento negli Usa, Kyiv non accetta il piano, gli Stati Uniti bloccheranno la fornitura di armi al Paese. L’Ucraina ora si trova di fronte a un sofferto bivio, come ha dichiarato chiaramente Zelensky davanti alla nazione: «Perdere la dignità o un alleato chiave».

Con l’accordo proposto - e imposto - dagli Usa l’obiettivo della pace giusta inevitabilmente si allontana. Per gli ucraini, stremati da quasi quattro durissimi anni di guerra su larga scala, questo è il momento più difficile. ll bisogno di pace si scontra con l'amara constatazione, per molti, che le condizioni poste per la fine della guerra siano piuttosto la richiesta a Kyiv di un'umiliante capitolazione. «Che la guerra debba finire è un fatto. Ma come ogni altro ucraino, voglio essere sicuro che la fine del conflitto non porti a una nuova ondata di attacchi da parte della Russia fra tre, cinque o dieci anni». A commentare è Vadim K., 35enne di Charkiv che lavora per organismi non profit ed è sposato con una ragazza originaria di Luhansk. «Mettendomi nei panni di chi ora deve prendere le decisioni, io non accetterei mai il punto numero 6 del piano, che limita le forze armate ucraine a 600mila uomini: se parliamo di garanzie di sicurezza, le vere garanzie non sono vuote promesse come il Memorandum di Budapest del 1994 (che è stato poi infranto da Mosca nel 2014). La migliore garanzia è il nostro esercito. Quanto al punto 13, che parla di reintegrare la Russia nel sistema economico globale, a mio avviso questo permetterebbe ai russi di riparare le loro perdite militari nel minor tempo possibile e anche di ampliare la loro capacità militare. E, ovviamente, non sono d'accordo con il punto 21, sulla cessione dei territori alla Russia. Certamente io voglio pace e prosperità per il mio Paese. Ma per raggiungerle abbiamo bisogno di un mondo giusto, non solo sulla carta. E dobbiamo lavorare per correggere i nostri errori».



«Tutti questi punti non si distinguono quasi per nulla dagli ultimatum posti dalla Russia sin dall’inizio della guerra», commenta da Kyiv, con un'analisi molto critica e preoccupata, padre Volodymyr L., trentenne sacerdote greco-cattolico, figlio di padre ucraino e madre russa, acuto osservatore della storia e della politica ucraina. Sono i giorni della commemorazione dell'inizio di Euromaidan, come sono state ribattezzate le grandi proteste filo-europee cominciate la notte tra il 21 e il 22 novembre del 2013 e sfociate nella rivoluzione che nel 2014 ha portato il presidente Vyktor Janukovyc alla fuga. Oggi, 22 novembre, è anche la commemorazione dell'Holodomor, lo "sterminio per fame" che fra il 1932 e il 1933 sotto il regime di Stalin portò alla morte milioni di ucraini e che nel 2006 è stato riconosciuto come genocidio dall'Ucraina e da altri Stati membri dell'Onu. «Se entriamo nei dettagli del piano di pace di Washington, il primo punto conferma la sovranità dell’Ucraina», ossserva padre Volodymyr, «ma tutti gli altri iniziano semplicemente a negarla. E non negano soltanto la sovranità dell’Ucraina, ma anche quella dei Paesi della Nato. Prima dell’invasione su vasta scala, la Russia presentò alla Nato i propri ultimatum. Oggi essi riappaiono in questo piano. L'idea di un accordo globale di non aggressione tra Russia ed Europa è un altro pretesto per la Russia per tirarla per le lunghe, contrattare, giocare sulle contraddizioni interne ai Paesi europei e mantenersi margini di manovra del tipo “non siamo riusciti a trovare un’intesa”».

Nel piano si dice che la Russia non invaderà i Paesi vicini e che la Nato non si espanderà ulteriormente. «E se la Nato volesse accogliere qualche altro Paese? Dovrebbe semplicemente cedere al ricatto russo? Tutti sanno che cedere ai ricatti è una strategia fallimentare: se il ricattatore non viene fermato e isolato, alla fine realizzerà comunque le sue minacce, ottenendo prima tutto ciò che pretendeva. Quanto alla promessa di “garanzie di sicurezza affidabili” per l’Ucraina, questa è un inganno. Abbiamo già vissuto cose simili più volte. Persino l’Articolo 5 della Nato (se un Paese membro viene attacco gli altri devono intervenire, ndr) non appare come una garanzia assoluta. Perché imporre allora il divieto all’ingresso nella Nato? Questo divieto viene imposto espressamente per attaccare di nuovo l’Ucraina in futuro. Finché non siamo nella Nato, è più facile farlo. I russi dicevano di non volere l'Alleanza atlantica ai propri confini, ma hanno accettato quasi in silenzio l’ingresso della Finlandia, ottenendo così un confine con la Nato più lungo di quanto sarebbe stato con l’Ucraina. È evidente che la questione non è l’allargamento o il non allargamento. La questione è l’Ucraina e la sua esistenza stessa come Stato». 

Ogni punto del piano, secondo padre Volodymyr, contiene in sé la possibilità di un nuovo attacco russo. «Un tempo Stati Uniti, Regno Unito e la stessa Russia promisero l’inviolabilità della nostra integrità territoriale in cambio della rinuncia alle armi nucleari, con il Memorandum di Budapest. Oggi vediamo i risultati di quelle “garanzie”». Il sacerdote continua: «I punti relativi alla reintegrazione della Russia nella politica globale e alla sua impunità attraverso la garanzia dell'amnistia sono di un cinismo assoluto. È un rafforzamento in vista dei prossimi attacchi e un segnale ad altri regimi autoritari: le pretese territoriali e le conquiste con la forza verranno riconosciute dalla comunità internazionale. Il male impunito torna in seguito con più vigore. L’assenza di punizione per l’invasione della Georgia portò all’annessione della Crimea; l’accettazione di quest’ultima portò all’invasione su larga scala e al genocidio nei territori occupati. Ora non solo si vuole evitare ogni punizione, ma addirittura premiare l’aggressore. La Russia ha problemi economici e tensioni sociali interne. Ha bisogno di una pausa per ricostruire almeno un minimo la sua economia, ma per evitare tensioni dovrà continuare con nuove guerre. E questo i Paesi Baltici lo comprendono meglio di chiunque altro».

Da tutto questo piano, osserva ancora padre Volodymyr, «i maggiori benefici, oltre alla Russia, li ottengono gli Stati Uniti: guadagno netto a costo zero. Questo accordo non riguarda la fine della guerra, ma stabilisce come devono comportarsi Ucraina e Unione europea, quali benefici debbano ottenere gli Stati Uniti e fissa la completa giustificazione dell’aggressore. Siamo esausti e disperati, ma manteniamo ancora la speranza. Il nostro unico bivio è: lottare nella speranza che i processi interni già in corso in Russia portino alla sua disintegrazione, oppure essere conquistati, vedere eliminati tutti coloro che non si adattano all'ideologia russa e gli altri, quelli che si adattano, mandati al fronte a combattere contro i Paesi europei, come già avviene con gli abitanti dei territori ucraini occupati».

(Foto Ansa in alto: il presidente ucraino Volodymyr Zelensky e sua moglie Olena alla commemorazione, oggi 22 novembre, delle vittime dell'Holodomor, al complesso del Genocidio dell'Holodomor nel Museo nazionale di Kyiv