Si potrebbe dire che tutta Roma ha pianto due volte. La prima quando la Torre dei Conti, antico guardiano di pietra dei Fori Imperiali, si è piegata su se stessa come un vecchio stanco. La seconda, quando il cuore di Octav Stroici ha smesso di battere, nonostante le mani dei vigili del fuoco e dei medici abbiano tentato di strapparlo alla morte fino all’ultimo respiro. C’è qualcosa di terribilmente simbolico in questa tragedia: un operaio venuto da lontano, che lavorava per restituire dignità a un monumento del passato, è rimasto sepolto sotto la storia stessa che voleva salvare. Octav era lì per costruire, non per morire. E invece, le pietre che doveva restaurare gli sono crollate addosso, trascinando con sé anche un pezzo di coscienza civile. Il suo cuore non ce l'ha fatta, nonostante l'impegno dei soccorritori.

Si può parlare di fatalità? Doi sciatteria? Ma la fatalità – in Italia – ha spesso la forma di una crepa ignorata, di una segnalazione rimasta su una scrivania, di un monitoraggio saltato per risparmiare tempo o denaro. Ora i magistrati indagano, e faranno bene. Perché ogni cantiere che diventa tomba è una sconfitta dello Stato, non della sorte. Dietro le frasi di circostanza dei politici – i pensieri commossi, i cordogli digitali – resta l’immagine di una città che non protegge chi la custodisce. Stroici, con la sua tuta impolverata, rappresentava la Roma che lavora, quella silenziosa, che non finisce nei talk show ma nelle pieghe della cronaca nera. Sotto le macerie della Torre dei Conti non è rimasto solo un uomo: è rimasta l’idea che la bellezza si possa restaurare senza rispetto per la vita di chi la ricostruisce. Roma, culla di millenni, si è riscoperta fragile. E il suo cuore – come quello di Octav – ha ceduto per un istante. Ma quel nome, Stroici, ora appartiene alla città.