PHOTO
Milanesi lungo la Darsena dei Navigli a Milano
Il fatto ha scosso Milano: in Darsena tre minorenni, due ragazze di 17 anni e una di 16, hanno aggredito poliziotti con calci e testate.
Ne parliamo con il professor Marco Erba, insegnante, scrittore e papà di due figli naturali e uno in affido. La sua esperienza diretta con i ragazzi si riflette in questa frase che dice tutto: «Se non fossi insegnante non avrei nulla da scrivere, e non avrei imparato tanto dai miei studenti».
Professor Erba, l’aggressione ha colpito anche perché protagoniste sono delle minorenni. Cosa ci dice questo episodio sulla trasformazione dell’adolescenza e sulla violenza femminile?
C’è una grande sofferenza dietro questi gesti. Gli adolescenti non nascono più cattivi di ieri, ma il vuoto educativo genera dolore che si manifesta con violenza. La brutalità sta nelle azioni, non nelle persone. Sono ragazzi che faticano a sognare, a vivere la logica del dono, che consiste nel dare qualcosa di sé agli altri per trovare felicità. La nostra società iper competitiva li spinge a confrontarsi come avversari: chi non si sente all’altezza cerca di imporsi in modi distruttivi.
Qual è il ruolo della scuola in questo contesto? E cosa pensa della classifica Eduscopio che valuta le scuole principalmente sui risultati accademici?
Valutare una scuola solo con i numeri è riduttivo. L’insegnante deve essere educatore, la scuola un luogo di accoglienza, dove i ragazzi imparano a conoscere i propri limiti e a diventare cittadini responsabili. Le scuole che salvano ragazzi dalla strada, anche se con voti modesti, sono eccellenti perché insegnano il dono e la responsabilità sociale. Il confronto va inteso come stimolo a migliorarsi, non come competizione ossessiva.
Molti adulti parlano di smarrimento nei giovani. Quali radici profonde possono spingerli oltre la trasgressione verso la violenza?
Il limite è imparare a volersi bene e a rispettare gli altri. L’empatia si sviluppa nella relazione diretta: mostre, natura, bellezza, conversazioni autentiche. Lo schermo appiattisce, la profondità si coglie nella relazione. Gli adulti devono interrogarsi sul loro ruolo: se non ci mettiamo in gioco noi, non possiamo pretendere che i ragazzi crescano responsabilmente.
Quali strumenti educativi possono prevenire comportamenti estremi?
Il primo è l’ascolto attento: come sosteneva Socrate, prima di rispondere bisogna capire davvero ciò che l’altro dice. Comprendere precede il giudizio; rispondere senza ascoltare porta solo confusione. Secondo, essere esigenti con affetto: l’insegnante non è amico né arbitro, ma allenatore, accompagna, stabilisce limiti chiari e sostiene i ragazzi nel superarli.
Come evitare la stigmatizzazione e favorire un percorso di crescita per chi sbaglia?
La stigmatizzazione va rivolta all’azione, non alla persona. Ho studiato dai salesiani e insegnato con loro per anni: Don Bosco sosteneva che bisogna avere fede nei giovani, credere che in ogni ragazzo ci sia un punto accessibile al bene. L’educatore resta vicino, con pazienza, come un seminatore. Il cortile, il tempo trascorso insieme in modo non strutturato, con voglia di esserci, diventa fondamentale: lì si intercettano i ragazzi e si costruisce fiducia. Educare è un atto di fede: se non credi che ci sia del buono in loro, non puoi accompagnarli. La frase finale del libro Cuore nero, di Silvia Avallone, è significativa e ruota intorno a un concetto potente, che si riassume così: “Grazie per aver creduto che anche in me c’è del buono”. Una frase che è un vero trattato di pedagogia: lo sguardo che ogni educatore, insegnante e adulto dovrebbe avere.







