Cari amici lettori, in questi giorni stanno facendo molto discutere i processi di Filippo Turetta, il 22enne assassino di Giulia Cecchettin, e di Alessandro Impagnatiello, il 31enne che ha trucidato la compagna, un’altra Giulia (Tramontano) con il piccolo Thiago che portava in grembo. Per Impagnatiello l’ergastolo è condanna certa. Per Turetta è stato chiesto dall’accusa, mentre la difesa ha invocato che vengano escluse le aggravanti di premeditazione, crudeltà e atti persecutori.

Tale richiesta è stata giusti­ficata da affermazioni della difesa che hanno sollevato un vespaio, tipo: «Un omicidio efferato, ma non c’è crudeltà». Al di là del dibattito legale, mi restano tante domande, come penso succeda anche a voi. Ci troviamo di fronte a delitti gravi, voluti, “costruiti” nel tempo dai due giovani imputati con piena consapevolezza e piani­ficazione: la pena, col suo carattere “punitivo”, è doverosa, altrimenti non si avrebbe “giustizia”. Ma siamo davanti, almeno nel caso di Turetta, a un uomo molto giovane, con la prospettiva di una pena “per sempre”. Che ne sarà di lui? L’ergastolo lo aiuterebbe a rivedere quanto ha fatto, a intraprendere un cammino di vera presa di coscienza del male compiuto e di progressivo ma radicale “cambiamento”? È un dilemma di­fficile, complicato: le esigenze della giustizia da una parte, le esigenze dell’umanità dall’altra. Ma non sono necessariamente percorsi alternativi o contraddittori.

Fa pensare in proposito anche il caso di Riccardo, il 17enne di Paderno Dugnano che ha ucciso il fratellino piccolo, poi il padre e la madre. Pochi giorni dopo il delitto ha sentito l’esigenza di confessarsi col cappellano del carcere. Sfogo dell’angoscia, presa di coscienza? Chi lo sa. Fa pensare – è un caso totalmente diverso, ma accomunato dal fatto di una pena estrema, in questo caso la condanna a morte – la storia di Shalom Nagar, l’uomo israeliano estratto a sorte per eseguire l’impiccagione di Adolf Eichmann, l’uomo che nel Reich nazista aveva organizzato la macchina infernale di annientamento di sei milioni di ebrei e processato a Gerusalemme nel 1962.

Nagar aveva raccontato a un giornalista, Francesco Battistini, la pietà che lo aveva colto di fronte al carnefice, che diventa poi terrore: «Non avevo mai visto un uomo impiccato. Avevo ventisei anni, che ne sapevo? Ero davanti a lui. Ho visto la sua faccia bianca, gli occhi fuori. Grandi, ­fissi. Come se mi guardasse. Anche la lingua era fuori, insanguinata. Chiesi d’allontanarmi, ma il comandante mi disse di no». Nagar ha raccontato di aver avuto un anno di incubi («M’ero cosparso del suo sangue, questo è il punto») e da quel momento ha cominciato a pregare, digiunare e studiare. Nagar non sapeva chi fosse Eichmann, ma di fronte alla morte orribile di un uomo, che conosceva nella detenzione quotidiana, è stato colto da sgomento. Certo l’ergastolo non è la pena capitale, ma assomiglia molto a una morte inflitta da vivi. Si può fare diversamente? Non ho risposte e rimango con una sorta di sgomento.

Con domande che forse non possono avere risposta, ma che sollecitano una sorta di pietas per assassini che forse – dico forse, in forma di domanda – sono in qualche modo vittime. Magari di se stessi, del proprio narcisismo spropositato. Sicuramente rimangono persone. Come cristiani, ci fa bene sostare in silenzio di fronte a un mistero così grande. E interrogarci su come il vero Mistero guarderebbe a tali persone.


Questo articolo è una collaborazione con la rivista Credere
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