C’è una nuova forma di censura che non alza muri né brucia libri. Non ha un volto, non pronuncia divieti espliciti, non firma decreti. Eppure, decide ogni giorno cosa possiamo vedere, condividere, raccontare. È la censura dell’algoritmo, silenziosa e pervasiva, che opera dentro le tecnologie di intelligenza artificiale onnipresenti sui social e ovunque.

È attorno a questo argomento, profondamente etico prima ancora che tecnico, che si è discusso durante il convegno romano del Ministero della Cultura – Cinecittà, promosso dalla Sottosegretaria alla Cultura Lucia Bergonzoni: “IA: l’algoritmo, censura del XXI secolo”, che si è svolto il 17 dicembre a Roma, presso le Gallerie Nazionali di Arte Antica di Palazzo Barberini. Un titolo che suona come un avvertimento: non stiamo parlando solo di strumenti, ma di un potere che le nuove tecnologie possono esercitare sul pensiero, sull’immaginario, sul corpo, sulla libertà creativa: «Dove un tempo dominavano morale, religione, pudore, oggi imperversano nuove forme di controllo che non di rado si trasformano in vere e proprie azioni di censura a discapito del nostro patrimonio artistico e culturale e degli artisti che lo hanno reso e lo rendono così straordinariamente unico. Dinamiche animate» ha spiegato il Sottosegretario alla Cultura Lucia Borgonzoni, in apertura al convegno «da quel motore invisibile che alimenta le più moderne tecnologie e che potrebbe avere ripercussioni in termini di influenza sulla società e sulla ricchezza generata dalla diversità del dibattito culturale».

Hanno preso parte all’evento artisti (la fotografa Donatella Nicolini, lo scultore Jago, lo scrittore Donato Carrisi) esperti del mondo universitario (tra cui Martino Diez, Renata Salvarani e Randa Khalil), giuridico (Prof. Avv. Valeria Falce e tecnologico (Padre Paolo Benanti, Gianluca Mauro, fondatore e CEO di AI Academy ed Epiphany) insieme a dirigenti del MiC (Luca Mercuri, Alfonsina Russo, Alessandra Necci, Moira Mascotti) e personalità illustri del panorama culturale (Claudio Pagliara, Giordano Bruno Guerri, Rav. Roberto Della Rocca, Fiamma Nirenstein)

Il focus, soprattutto, è stato il mondo dell’arte. Musei, fotografie, sculture, immagini del corpo umano che per secoli hanno raccontato la bellezza, la fragilità e la dignità delle persone, oggi rischiano di essere oscurate da filtri automatici incapaci di distinguere tra pornografia e arte visiva, tra offesa e linguaggio simbolico. Un algoritmo non “vede”: classifica. E in questa classificazione perde il contesto, la storia, il senso.

Il paradosso è evidente: ciò che un tempo veniva giudicato da sensibilità culturali diverse, oggi è sottoposto a un controllo ancora più rigido perché opaco, globale e spesso deciso altrove. Non più un censore riconoscibile, ma modelli matematici addestrati che riflettono visioni del mondo non sempre compatibili con la realtà, specie quando si parla di arte, ma distorte dalle chatbot.

Molti interventi hanno insistito su questo punto: l’intelligenza artificiale non è neutra. Porta con sé i valori, consapevoli o meno, di chi la progetta, di chi la addestra, di chi ne stabilisce criteri e confini. Quando questi criteri vengono applicati in modo automatico alla circolazione delle immagini e delle parole, il rischio è l’omologazione.

Non si tratta, però, di demonizzare la tecnologia. L’IA può essere una risorsa straordinaria per catalogare, studiare, valorizzare il patrimonio culturale. Può aiutare a raccontare nuove storie, a rendere accessibili archivi, a costruire ponti tra passato e presente. Ma solo se resta uno strumento nelle mani dell’uomo, e non il contrario.

Il tema del corpo, nudo, vulnerabile, reale, è emerso come uno dei terreni più delicati. Nella rete e nei social, il corpo viene spesso ridotto a oggetto da censurare o da consumare, senza più la possibilità di essere linguaggio, racconto, relazione. La fotografia artistica, la maternità, la diversità fisica finiscono così penalizzate da sistemi automatici che non sanno leggere la complessità dell’esperienza umana.

In questo scenario, la riflessione etica diventa decisiva. Non basta una regolazione tecnica o giuridica: serve una cultura della responsabilità condivisa. Serve educare allo sguardo, al discernimento, alla consapevolezza che ciò che deleghiamo alle macchine incide profondamente su ciò che siamo e su ciò che diventiamo. Lo ha ricordato con forza anche padre Paolo Benanti, da anni impegnato sul fronte dell’etica delle tecnologie: l’avvento dell’IA ha ridefinito i confini della creatività, offrendo strumenti di potenza inaudita per la generazione di contenuti, codice e soluzioni artistiche. Tuttavia, questa “libertà” algoritmica porta con sé interrogativi etici urgenti: dalla tutela del diritto d’autore alla trasparenza dei dati, fino al rischio di allucinazioni e bias cognitivi”.

Per una società che si definisce democratica, questa è una sfida cruciale. Difendere la libertà creativa significa difendere la dignità della persona, la pluralità delle visioni, la possibilità di declinare il talento umano, senza ridurlo a un codice binario. In un tempo che affida sempre più decisioni agli algoritmi, la vera urgenza è forse questa: non smettere di essere umani, anche se costruiamo macchine sempre più intelligenti.