In occasione della testimonianza della mamma di Sammy Basso all'interno dell’incontro dei giovani italiani in Piazza San Pietro, ripubblichiamo l'intervista che abbiamo fatto quando abbiamo insignito Laura, Amedeo e Sammy del titolo Italiani dell'anno di Famiglia Cristiana 2024.

Sammy è vita, è grinta, Sammy è amicizia, conforto, Sammy è fede, Sammy è passione. È unanime il coro degli amici e delle persone che hanno conosciuto Sammy Basso, il giovane biologo 28enne malato di progeria e scomparso il 6 ottobre scorso. Alla  cerimonia per l’ultimo congedo, gremita di persone commosse, è stata protagonista la sua capacità unica di moltiplicare il bene, la generosità d’animo. Quando incontriamo i genitori nella loro casa a Tezze sul Brenta, un paesino del Veneto non distante da Vicenza, per consegnargli la targa con cui li riconosciamo insieme a Sammy Italiani dell’anno 2024 di Famiglia Cristiana, ce lo confermano. «Tutto ciò che ha creato intorno a sé continua e continuerà a esserci per sempre, perché Sammy è qui con noi. Lo vediamo negli amici che portano avanti più di prima i  progetti. È l’amore di Sammy che genera amore». Lui stesso, ricorda la madre Laura,  in una sorta di lettera-testamento letta alle esequie dal vescovo di Vicenza, Giuliano Brugnotto, «ci ha detto: “Amate chi vi sta intorno. I vostri compagni di viaggio non sono mai il mezzo, ma il fine”. Sammy c’è, resta nel cuore di tutti».

Sapevate di questo testo?

«È stato una sorpresa anche per noi. Nonostante parlassimo di qualsiasi cosa e ci dicessimo tutto, Sammy aveva scritto alcune lettere nel 2017 prima dell’operazione al cuore che avrebbe poi affrontato due anni dopo e che gli aveva fatto capire quanto grave fosse la situazione. Sapeva che quell’intervento, per lui, sarebbe stato un “tiro della monetina” ma  l’aveva affrontato con grande coraggio. Prima di entrare in sala operatoria ci aveva sorriso e fatto il segno della croce sulla fronte. Questo ci ha permesso di vivere l’attesa con serenità».

Chi ha conservato per sette anni quelle lettere?

«Il suo fisioterapista e amico Mauro Grande con cui aveva un rapporto speciale e condivideva la ricerca di una fede profonda. Vera. Quando l’abbiamo chiamato per dirgli che era mancato ci ha detto: “Domattina presto sono da voi”, e ci ha consegnato gli scritti». 

Più lettere: quella “testamento”, ma anche una in cui diceva come avrebbe voluto il suo funerale.

«Una Messa bella, di festa. Era arrivato a concepire la morte non come una fine, ma come un passaggio. Un nuovo inizio, ed ecco perché andava festeggiato».

Un’idea altissima della morte, ma anche della vita.

«La vita per lui era sacra. Non per niente ha iniziato il suo saluto scrivendo “Voglio che  sappiate innanzitutto che ho vissuto la mia vita felicemente!”. Sammy ha fatto tutto quello che poteva e di più, talvolta anche sfidando la sorte».

Con un rispetto della vita, sua e degli altri, profondo. Persino della malattia.

«Ci ha convissuto sin da bambino, è cresciuto sapendo cosa aveva e cosa lo aspettava. Non per niente si è congedato dicendoci “sicuramente in molti diranno che ho perso la mia battaglia contro la malattia. Non ascoltate! Non c’è mai stata nessuna battaglia da combattere, c’è solo stata una vita da abbracciare per com’era, con le sue difficoltà, ma

pur sempre splendida, pur sempre fantastica, né premio, né condanna, semplicemente un dono che mi è stato dato da Dio”».

Anche per voi è stato un dono la sua malattia?

«Gli è stata diagnosticata che aveva due anni e un mese ed è stata una mazzata. Per un po’ di tempo ci siamo chiesti cosa avessimo fatto per meritarci questo. Poi un giorno ci siamo guardati e abbiamo capito che stavamo sbagliando tutto. Sammy doveva vivere una vita più normale possibile. Aveva un cuore per gioire, un senso dell’umorismo notevole. Chiunque ha riso un sacco con lui. Sapeva prendersi gioco della sua immagine. Diceva sempre: “Alla fine siamo tutti diversi e per questo siamo tutti uguali”. Da quel momento abbiamo visto la vita in modo totalmente diverso, non dando mai niente per scontato».

Al collo portava il Tau. Che legame aveva con san Francesco?

«Guardava e viveva la vita allo stesso modo. Non uccideva nemmeno una formica. Così con l’ambiente, aveva un rispetto profondo per il creato. Da qui anche la scelta degli studi, Scienze naturali e Biologia molecolare».

Studi volti a capire meglio anche la sua malattia?

«Della sua malattia sapeva tutto, l’ha sempre saputo. Sapeva soprattutto che la progeria, ovvero l’invecchiamento precoce, ti condanna prima del tempo. Ma voleva fare ricerca per aiutare i bambini di oggi e di domani, ben consapevole che non la faceva per lui perché non c’era più tempo».

Come gestiva la paura?

«La vinceva con la preghiera. Metteva tutto nelle mani di Dio».

Come reagiva ai fatti drammatici del mondo?

«Stava male, gli pesava non capire perché l’essere umano potesse arrivare a tanta violenza. Non riusciva a darsi pace. Due Natali fa era andato a incontrare monsignor Parolin e in quell’occasione gli aveva detto che avrebbe dato sé stesso e la sua vita se fosse stato d’aiuto per la Terra Santa. “Se io posso fare qualcosa”, gli aveva confidato, “tu usami”».

E l’incontro con il Santo Padre?

«È stato breve ma intenso. Per Sammy è stata un’esperienza mistica. Quando siamo entrati nel suo ufficio, un ambiente molto grande, lui non vedeva altro che il Papa. L’incontro l’ha caricato, Sammy gli ha chiesto se poteva ricevere una benedizione da espandere ad amici e parenti e agli altri pazienti con progeria. Una benedizione da condividere con gli altri».

Parlavate di Dio in casa?

«Tutti i giorni. Siamo credenti, ma Sammy lo viveva veramente in maniera quotidiana e nel suo modo di rapportarsi agli altri. Il Natale? Per lui la Messa solenne del 25 dicembre era imperdibile, ma il Natale lo viveva tutti i giorni, così come viveva tutti i giorni la Pasqua. Pregavamo insieme, ma pregava anche da solo. Ultimamente aveva una sveglia sul cellulare, che gli ricordava la lettura del giorno. Meditava quotidianamente ciò che il Santo Padre diceva».

Sammy è mancato da poco più di due mesi. Oggi come state?

«È più difficile ora del primo periodo. Adesso ci accorgiamo veramente che lui manca. Finché è stato con noi la casa era piena di vita; anche se era nella stanza accanto, c’era energia.  Giorno dopo giorno manca».

Cosa vi manca di più?

«Con Sammy abbiamo avuto il privilegio di vivere una vita piena, anche a livello fisico. Aveva 28 anni, ma ricercava gli abbracci e i baci, veniva a sedersi sulle mie gambe (aggiunge mamma Laura, ndr). Ci mancano le coccole. E poi, parlava tanto di tutto. Era molto aperto. Diceva cose serie, cose leggere, parlava di fede, sorrideva tanto, sempre. Scherzava, qui si rideva di continuo. Ci mancano i suoi occhi perché il contatto visivo era essenziale anche durante le serate e le ospitate. Chiedeva tanto a noi, il nostro punto di vista. C’è sempre stata la massima apertura. Abbiamo condiviso progetti e pensieri. Ci definiva una grande squadra».

Qual era il segreto della vostra squadra?

«La vitalità di Sammy e il dialogo. Ci siamo sempre confidati tutto. Il dialogo in famiglia è una forza che unisce e avvicina. Oggi come prima, ci sostengono il dirci tutto e la fede».

La vita di Sammy è stata piena di incontri anche nelle scuole. Cosa voleva dire agli altri ragazzi?

«Che non bisogna mai giudicare una persona per l’aspetto esteriore e che chiunque, se vuole, può fare qualsiasi cosa. Di non fermarsi mai. Si è sempre circondato di tante persone e tanti amici. Diceva sempre: “Da soli si può fare molto, ma in tanti si possono raggiungere obiettivi che da soli sembrano impossibili”. I grandi i traguardi li ha raggiunti tutti in compagnia».

Cosa direste voi a chi vive la stessa prova?

«Che se ti chiudi ti isoli. Invece, bisogna farsi attraversare dalle prove, accettarle. Se non le accetti non puoi gustare la gioia quotidiana».

Mentre ci congediamo ci raggiunge il parroco di Tezze, don Pietro Savio. «C’è chi dice “Santo subito”» ci racconta. Ma Sammy sta già parlando al cuore di tante persone e lo farà per diverse generazioni.