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In questi giorni, 500 mila studenti sono alle prese con il primo vero esame di Stato della vita, che conclude il ciclo dell’istruzione secondaria: il colloquio orale dopo le due prove scritte che hanno sostenuto la scorsa settimana.
Leggo che dal Ministero vorrebbero ripristinare, a partire dall’anno prossimo, il nome antico di esame di maturità. Immagino le comprensibili reazioni: un ritorno al passato, una dicitura che copre svolte autoritarie.
Sappiamo bene che non è un nome a dare sostanza alle cose, né un pezzo di carta a fare di ragazzi e ragazze uomini e donne. Eppure anche i nomi hanno peso e valore e non bisogna averne paura.
Essere maturi non significa ottenere i massimi risultati, gettarsi in una competizione sfrenata, dimenticare la leggerezza e la passione, anche la bella svagatezza dell’adolescenza. Ma è maturità porsi di fronte alle sfide e alle difficoltà e imparare a sostenerle.
Comprendere che la fatica, i sacrifici di tante ore di studio che, ci viene il dubbio, possono non servirci mai, hanno comunque un senso. Insegnano ordine, attenzione ai tempi, dosaggio delle proprie forze, condivisione con i compagni delle incomprensioni e delle eccellenze.
Insegnano a misurarsi, a capire i punti di forza e le fragilità. E anche le ansie, o gli scanzonati riti pre e post esame sono passaggi, memorabili e fondativi. Preparano alle tante prove che la vita pone, non solo per ottenere certificati.
Non è un documento, un timbro, che rende maturi, eppure l’esame che conclude la scuola superiore cambia. È una cesura, che rilancia nella realtà con una responsabilità nuova. È il tempo di una scelta: un nuovo percorso di studi, una strada lavorativa.
Opzioni ancora confuse, che potranno e forse dovranno cambiare per strada, imparando a stare coi piedi per terra e a conoscere le proprie possibilità.
Come in tante altre occasioni avverrà, tocca rispondere sinceramente a tre domande:
Cosa ami fare, ed è il primo criterio, da approcciare conoscendosi, liberi da condizionamenti.
Che cosa sai fare: utopico e infantile sognare un futuro da ingegnere nucleare se nelle materie scientifiche raggiungi appena la sufficienza.
Ma anche che cosa puoi fare, seppure sembri un vincolo, perfino umiliante. Potrei sognare un corso di laurea nella più prestigiosa università estera, e non avere le risorse economiche, o avere invece legami affettivi che mi impediscono di andare lontano.
È una sconfitta? No, è una presa d’atto. E accettarla, assumerla come propria decisione fa crescere.
Forse cullando i nostri figli troppo a lungo abbiamo insinuato che le infinite possibilità fossero tutte a portata di mano.
Sempre educativo e giusto guardarsi intorno, e riconoscere in tanti compagni coetanei, vicini e lontani, condizioni così precarie o difficili che pure non frenano la volontà, le energie creative, l’intelligenza.
Ricordarsi sempre che aver potuto studiare, forse continuare a studiare è un privilegio. Non è per tutti, purtroppo. Ridicolo lamentarsene o rifiutarlo.
In collaborazione con Credere
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