Novant’anni fa, il 21 gennaio 1924, moriva il primo dittatore, cronologicamente parlando, del XX secolo, colui il quale tolse la Russia dalle mani secolari degli zar dando inizio alla scintilla della rivoluzione comunista, con i risultati conosciuti da tutti, dall’Europa all’Asia fino ai Caraibi: Vladimir Il’ič Ul’janov, più conosciuto come Lenin. Dopo la morte, la salma percorre più di 400 chilometri su un treno, quanto basta a trasformare una persona in un simbolo.

La scomparsa di Lenin, però, a soli 53 anni, non arriva improvvisa per chi comanda nelle stanze di Mosca, cioè il successore, Iosif Vissarionovič Džugašvili, detto Stalin. Che dà il via alla celebrazione di un uomo che “deve” diventare un simbolo perenne per tutti i russi, anzi, per tutti i sovietici, in modo da accrescere il prestigio e il potere dello stesso Stalin. È una carta rischiosa ma degna del carattere politico del nuovo dittatore: usare il corpo di chi l’ha preceduto perché dia maggior luce a lui, a colui che d’ora in poi sarà la guida del Paese. Sembra un gioco di prestigio, ma non è un gioco. Quanto al prestigio, Stalin, esaltando il corpo di Lenin, esalterà se stesso dando il via a quel culto della personalità che in ambiente comunista sarà lo scudo protettivo di ogni errore, ogni scelta, ogni sopruso, ogni nefandezza politica, economica, sociale, umana.

Lenin si è ammalato un anno e mezzo prima, il 25 maggio 1922, colpito da un ictus. Paralizzato nel lato destro del corpo, impara a scrivere con la mano sinistra e affida ai propri scritti il futuro del partito: tesi, impostazioni, consigli, ordini e uno scritto in particolare che, dopo la sua morte, diverrà il “testamento politico” del rivoluzionario sovietico. Ma che verrà alla luce solo una trentina d’anni più tardi, quando Stalin non sarà più vivo, perché nuocerebbe all’immagine del Capo. Ora, invece, Stalin decide che Lenin deve essere omaggiato in modo totale, assoluto. Dopo un secondo ictus, il 16 dicembre 1922, Lenin è fuori dai giochi di potere e nel 1923 le sue condizioni si aggravano fino alla paralisi totale e alla morte, il 21 gennaio 1924.

Stalin vede e provvede: prima con un’autopsia, poi con il viaggio in treno della salma da Gorkij a Mosca, infine coi funerali solenni. E quando le spoglie arrivano a Mosca, inizia l’operazione teatrale, una macabra messinscena, l’istituzione della presunta immortalità del “personaggio” Lenin. Il governo ordina che sia eseguita un’indagine sul corpo di Lenin, ma solo 8 dei 27 medici chiamati per l’autopsia firmano il referto ufficiale: morte sopraggiunta per aterosclerosi cerebrale. Perché solo 8 hanno firmato? Dal mistero si entra nel campo degli intrighi ma Stalin, esaltando quel corpo e quella figura, mette a tacere ogni illazione.

Lenin viene imbalsamato mentre la città di Pietroburgo, divenuta pochi anni prima Pietrogrado, d’ora in poi si chiamerà Leningrado. E lì, sulla Piazza rossa, in un luogo già di per sé simbolo della rivoluzione russa, viene costruito il mausoleo che porta il nome del capo dei bolscevichi, il Mausoleo Lenin.

Il corpo del primo dittatore del XX secolo è ancora oggi lì, al centro della Piazza rossa, nel mausoleo che accoglie le visite di turisti provenienti da tutto il mondo per vedere da vicino il volto cereo ma realistico di Vladimir Il’ič Ul’janov, detto Lenin, l’uomo che tolse il potere della Russia agli zar, inventò la rivoluzione comunista, fece nascere il leninismo, credette di mettere fuori dai giochi Stalin, e morì completamente paralizzato. Paralizzato come l’intero popolo russo nelle mani di Stalin.