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In Indonesia, nelle settimane che precedono le celebrazioni per l’Indipendenza, qualcosa di inaspettato ha cominciato a fare capolino da balconi, cancelli e persino su qualche camion: non il classico rosso-bianco nazionale, ma il teschio col cappello di paglia di One Piece, il manga che ha conquistato milioni di lettori nel mondo. Il simbolo della ciurma di Monkey D. Luffy è stato ripreso da artisti, studenti e attivisti come emblema di malcontento verso il governo sui temi che più mordono la società indonesiana — disoccupazione, corruzione, politiche economiche ritenute sbilanciate — e l’apparente distanza tra la retorica ufficiale e la vita quotidiana della gente. Secondo le cronache, l’uso del vessillo è esploso per lo più sui social e in piccoli atti performativi, interpretato da molti partecipanti come satira, non come invito alla violenza, ma la reazione delle autorità è stata netta: in alcune province i simboli sono stati sequestrati e parlamentari hanno invocato misure contro ciò che viene descritto come un’offesa all’unità nazionale.


Se si guarda alla genesi della scelta, non si tratta soltanto di un vezzo estetico. One Piece racconta storie di ribellione, di comunità che si organizza fuori dai poteri costituiti e di idealismo che resiste alle ingiustizie; il jolly-roger col cappello di paglia è diventato quindi un vettore di senso già pronto, un linguaggio simbolico che la generazione dei nativi digitali sa attivare in poche ore. Questo tipo di trasferimento culturale — da prodotto d’intrattenimento a simbolo pubblico — non è nuovo, ma la sua forza sta proprio nella velocità con cui un’immagine può circolare, diventare virale e farsi bandiera di richieste concrete.
Il linguaggio delle immagini
La diffusione di simboli pop nella protesta ha una logica tecnica e psicologica. Un’immagine potente è immediatamente riconoscibile sui feed: viaggia, si replica, crea identità collettiva senza bisogno di manifesti o discorsi lunghi. Per i partecipanti, il vantaggio è duplice: abbassa la soglia di ingresso (indossare una maschera, alzare un ombrello, appendere una bandiera sono gesti semplici) e offre una forma di protezione simbolica — la dimensione ludica smorza la paura, la rende più «condivisibile». Per i governi, però, la stessa leggerezza può apparire come una sfida insidiosa, perché offusca la linea tra divertimento e dissenso organizzato e mette in difficoltà risposte istituzionali calibrate.


Non un fenomeno isolato: quando il pop diventa politica
La storia recente offre molti esempi di questa dinamica, e osservandoli insieme si intravede una mappa di significati ricorrenti. Nel 2014 a Hong Kong l’ombrello, inizialmente usato come riparo contro lo spray e i lacrimogeni, si trasformò nello strumento-segno della «Umbrella Movement»: un oggetto quotidiano assunto a simbolo di difesa non violenta e di richiesta di democrazia, che permise di condensare una protesta lunga e complessa in una sola immagine riconoscibile ovunque.
Nel cuore dell’Europa, nel 2020, la protesta bielorussa contribuì a ridefinire un codice cromatico: abiti bianchi, nastri e fiori divennero il segno di una mobilitazione pacifica e, insieme, di una rifiuto della violenza di Stato. La bandiera storico-nazionale bianco-rossa-bianco, proibita e poi esibita, assunse lo statuto di simbolo di appartenenza civica alternativo a quello del potere vigente, testimonianza di come un colore possa trasmettere legittimità e memoria collettiva.
In Thailandia e poi in Myanmar la scena cambiò e si spostò sul gesto: il saluto a tre dita, preso in prestito da The Hunger Games, divenne il segnale di una protesta prodemocratica capace di parlare ai giovani e di agganciarsi a un repertorio simbolico internazionale; la sua forza stava nella semplicità e nella capacità di veicolare la richiesta di libertà, uguaglianza e fraternità in contesti nei quali l’esposizione pubblica è rischiosa e spesso penalizzata.


La maschera di Occupy: anonimato, identità e marketing dell’immagine
Un caso paradigmatico, spesso evocato quando si parla di simboli pop nelle piazze, è la maschera ispirata a Guy Fawkes — il volto stilizzato reso celebre dal graphic novel V for Vendetta e dall’omonimo film — che fu adottata prima dal collettivo Anonymous e poi dalle piazze di Occupy Wall Street. L’oggetto riassume in sé più strati di senso: anonimato protettivo contro ritorsioni, identificazione con una narrazione di rivolta anti-istituzionale e paradossalmente anche un elemento che si presta al consumo: la maschera è stata prodotta in milioni di copie da grandi editori e rivenduta come gadget, il che mette in luce la doppia natura di questi simboli, capaci al contempo di contestare il potere economico e di essere incorporati dalle sue logiche di mercato. La storia della maschera mostra come un’immagine della cultura pop — nata sulla carta e sullo schermo — possa trasformarsi in una pratica politica globale.


Ambiguità e rischi: quando il simbolo si ritorce contro chi lo usa
Usare la cultura pop come grammatica della protesta comporta vantaggi e insidie. Tra i rischi principali c’è la strumentalizzazione: un simbolo condiviso può essere appropriato da correnti diverse o addirittura contraddittorie, perdendo così la sua carica originaria e diventando oggetto di sfruttamento commerciale o propaganda. C’è poi il rischio della reazione statale: quello che nasce come gesto ironico o creativo può essere letto come atto di sedizione e quindi represso, con l’effetto paradossale di aumentare la visibilità del messaggio e di trasformare l’autore in martire. Infine, la stessa viralità può rendere effimera la protesta: l’immagine corre, il fatto concreto resta da risolvere.
Cosa ci dicono questi segnali sul presente civico?
Dal punto di vista civico e pastorale, la sequenza di questi eventi indica più cose insieme: una generazione che trova nella cultura di massa un linguaggio politico; una politica spesso incapace di ascoltare il dissenso se espresso in forme non convenzionali; e una sfera pubblica che si tinge di estetica per sostenere richieste sociali reali. La posta in gioco, per una società laica o confessionale che tenga al bene comune, è riconoscere che dietro la bandiera di One Piece, dietro la maschera di Guy Fawkes o dietro l’ombrello di Hong Kong, non ci sono soltanto tweet e meme, ma persone con volti, bisogni e speranze.
Per questo il compito delle istituzioni non dovrebbe essere la sola repressione del simbolo, ma l’apertura di spazi di ascolto che traducano le immagini in problemi da risolvere: lavoro, giustizia, trasparenza, partecipazione. Se la creatività simbolica è un ponte, occorre poi attraversarlo con la politica concreta; altrimenti resta la foto virale del giorno e nulla cambia nella vita della gente.


Un invito alla prudenza e all’empatia
I segni sono necessari: la tradizione cristiana stessa lo insegna da sempre — il pane, la luce, il gesto valgono più di mille parole. Ma i segni devono essere interpretati. Davanti a una bandiera nuova o a una maschera che occhieggia da un balcone la prima domanda da porsi non è tanto che cosa voglia comunicare l’immagine in sé, quanto chi sono le persone che stanno dietro quel gesto e quali bisogni concreti reclamano risposte. Solo così il linguaggio simbolico diventa mezzo di riconciliazione e non miccia di ulteriore conflitto.



