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Le immagini che arrivano dal Sudan sono poche, filtrate, quasi proibite. E quelle che mostrano la realtà — come la foto di una madre e del suo bambino impiccati allo stesso albero — sono troppo dure per apparire su uno schermo. «Dopo la caduta di El Fasher», racconta Chiara Zaccone, capomissione di COOPI in Sudan, «le uccisioni di massa della popolazione etnicamente africana sono visibili persino dai satelliti. Ma le immagini più terribili le diffondono direttamente i miliziani delle RSF sui social network».
È un racconto che lacera. Il Darfur, regione grande quasi quanto la Francia, vive da due anni una delle peggiori crisi umanitarie del pianeta. La città di El Fasher, ultimo capoluogo rimasto sotto controllo governativo nel Nord Darfur, è da oltre 500 giorni sotto assedio. «È stato un assedio lunghissimo», spiega Zaccone, «e da aprile 2025 la situazione è precipitata. Il campo di sfollati di Zamzam, uno dei più grandi del Paese, è stato colpito pesantemente: migliaia di civili uccisi, circa 400 mila persone in fuga in un solo giorno».


Oggi El Fasher è un’enclave di fame e paura. «Tra 150 e 200 mila civili sono rimasti intrappolati nella città», prosegue. «L’accesso al cibo è quasi impossibile. Il nostro collega sul terreno ci raccontava bombardamenti quotidiani, scontri di strada, esecuzioni sommarie. L’ultimo prezzo che ci ha riferito, prima di riuscire a fuggire, era di 150 dollari per un chilo di riso. La gente sopravvive mangiando semi, foglie, persino pellame di animali. La malnutrizione, soprattutto tra bambini e donne, ha raggiunto livelli drammatici».
“Non ci aspettavamo questa crudeltà”
Quando parla dei suoi colleghi, la voce della capomissione di COOPI si incrina. «Non ci aspettavamo questo orrore, non ci aspettavamo questa crudeltà. I miei colleghi sono profondamente scossi. Alcuni avevano amici o parenti a El Fasher e da giorni non riescono più a contattarli. Uno di loro, che coordinava i nostri interventi, è riuscito a fuggire solo dopo tre giorni di cammino nel deserto, fino a Mellit. Ha rischiato la vita».
Le immagini satellitari della Yale Humanitarian School hanno confermato ciò che le testimonianze umanitarie già temevano: esecuzioni di massa, fosse comuni, ospedali devastati. «Nell’ospedale di Sodio, l’ultimo ancora funzionante a El Fasher, sono stati uccisi circa 400 civili», racconta Chiara. «È un dolore difficile anche solo da nominare».
Dietro le RSF — le Rapid Support Forces, protagoniste delle atrocità — c’è la lunga ombra dei janjaweed, i “demoni a cavallo” responsabili del genocidio del 2003. «La storia del Darfur è segnata da cicli di violenza e impunità», spiega. «Le RSF nascono da quella stessa matrice. E oggi la popolazione civile, in particolare quella non araba, paga ancora le conseguenze di un conflitto etnico e politico che non ha mai avuto una vera soluzione».


Il Sudan e la crisi dimenticata
Il Sudan, con i suoi 25 milioni di persone in bisogno urgente di aiuti umanitari, è la crisi più grave del mondo contemporaneo. Eppure resta ai margini delle cronache e dell’agenda internazionale.
«È qualcosa che mi colpisce profondamente», confida Chiara Zaccone. «In altri scenari di guerra — come Gaza o l’Ucraina — la mobilitazione è stata immediata: ponti aerei, campagne globali, aiuti d’urgenza. Qui no. Non c’è stata la stessa attenzione politica, diplomatica, né mediatica. I miei colleghi sudanesi dicono: “Ci state abbandonando”. Ed è difficile dar loro torto».
L’indifferenza pesa come un macigno. «La vita di un bambino sudanese vale quanto quella di un bambino europeo o mediorientale. Eppure la percezione è che alcune crisi contino di più. È una disparità che ferisce, e che la popolazione percepisce in modo acuto».
Venti anni di presenza e la scelta di restare
COOPI — Cooperazione Internazionale — opera in Sudan dal 2004. «Abbiamo una presenza storica nel Nord Darfur», spiega Zaccone. «Con lo scoppio del conflitto nel 2023, abbiamo dovuto reinventare tutto: riorganizzare le attività, spostarci, formare personale locale. Solo nel 2024 abbiamo implementato più di dieci progetti, raggiungendo circa 150 mila persone».
Tra gli interventi principali ci sono la fornitura di acqua potabile, la costruzione di latrine e impianti igienici, programmi di nutrizione infantile e sostegno psicologico per donne vittime di violenza. «Siamo rimasti operativi anche a Khartum, nei mesi più duri dei combattimenti, distribuendo acqua e supportando i centri sanitari. La capitale è devastata, molte famiglie vivono ancora in edifici distrutti o rifugi di fortuna».
Dopo l’intensificarsi degli scontri a El Fasher, COOPI ha dovuto sospendere temporaneamente le attività dirette, ma ha spostato l’intervento a nord, verso Mellit. «Stiamo assistendo i nuovi sfollati che arrivano ogni giorno», racconta. «Distribuiamo tende, kit per l’acqua potabile, beni essenziali e sostegno psicosociale. Le persone arrivano stremate, spesso dopo giorni di cammino. Sono soprattutto donne e bambini, molti in stato di malnutrizione grave».


I bisogni crescono, i fondi diminuiscono
Il quadro finanziario non aiuta. «Dopo i tagli annunciati dagli Stati Uniti, tutto il sistema umanitario ha subito un colpo enorme», spiega Chiara. «I bisogni aumentano, ma i fondi non bastano. Anche l’ONU ha promesso nuovi finanziamenti, ma sono ancora troppo pochi rispetto all’enormità della crisi». Secondo i dati condivisi nei forum di coordinamento umanitario, solo un terzo dei fondi richiesti per il piano di risposta in Sudan è stato effettivamente stanziato. «Questo significa dover scegliere chi aiutare e chi no. Una cosa che nessun operatore umanitario vorrebbe mai fare», ammette Zaccone.
Per cercare di colmare il vuoto, COOPI partecipa a iniziative di advocacy internazionale, tentando di riportare l’attenzione su un Paese che il mondo ha dimenticato. «Raccontiamo cosa vediamo sul terreno, con dati, testimonianze e immagini. Cerchiamo di dare voce a chi non ne ha più. Ma la sensazione è che si parli del Sudan solo quando l’orrore supera la soglia dell’indifferenza».
Vite spezzate e resistenza quotidiana
Chiara racconta di donne che scappano con i figli, di uomini che scavano pozzi con le mani, di bambini che camminano scalzi per chilometri. «Ogni incontro è una lezione di dignità», dice. «Ho conosciuto una madre che aveva dovuto fuggire tre volte. Era originaria di Khartum, poi si era spostata ad Al-Jazeera e infine a Gadaref, dopo che il marito era stato ucciso. Mi ha detto: “Grazie al contributo che mi state dando oggi riesco a comprare il cibo per i miei figli. Era da due settimane che non mangiavamo”. Sono storie che ti restano addosso».
Un’altra scena, più recente, arriva da El Fasher. «Il nostro collega stava distribuendo kit per la depurazione dell’acqua e per contrastare il colera. Mi ha mandato le foto: centinaia di persone in fila, con le taniche in mano, sotto il sole. Mi ha detto: “Insieme possiamo farcela”. Pochi giorni dopo ha dovuto fuggire. Quelle immagini, quel coraggio, mi hanno ricordato perché siamo qui». E poi il sorriso di un operatore sudanese, a Khartum, dopo una giornata di distribuzioni. «Mi ha detto: “Ho un sorriso che va da qui alla luna, perché sto aiutando la mia gente”. È una frase che porto nel cuore. È il motivo per cui restiamo».


Restare è necessario
Rimanere, oggi, in Sudan è una scelta che comporta rischi quotidiani. Ma per Chiara Zaccone e il suo team non è un gesto eroico: è un dovere umano. «La nostra presenza dà un segnale: la popolazione non è sola. Anche in mezzo alla distruzione, un po’ di speranza può nascere. Non possiamo cambiare tutto, ma possiamo cambiare qualcosa per qualcuno. E questo basta per continuare». In un Paese ridotto alla fame, dove gli ospedali sono macerie e l’acqua è veleno, restare è già una forma di resistenza.
E in quella resistenza, fragile ma ostinata, vive il senso più profondo dell’aiuto umanitario: non arrendersi all’indifferenza.



