Le immagini arrivano ogni giorno, sempre più simili tra loro e sempre più insopportabili: palazzi ridotti in polvere, bambini estratti dalle macerie, ospedali bombardati, file interminabili per un po’ di acqua o per un pezzo di pane da prendere da chi quella fame e sete le ha create. Gaza, da mesi, è un inferno. L’UNRWA calcola che oltre due milioni di persone siano intrappolate in una striscia di terra devastata, senza vie di fuga, sottoposte a un assedio che priva di beni essenziali come cibo, medicine, elettricità. A interi quartieri non resta che la distruzione.

Ogni giorno i bollettini parlano di decine di morti, spesso donne e bambini. Numeri che rischiano di anestetizzare, di diventare una litania senza volto. Ma dietro quelle cifre ci sono famiglie cancellate, comunità spezzate, storie di persone costrette a vivere sotto le bombe.

E non è solo Gaza. In Cisgiordania, parallelamente, i palestinesi subiscono l’avanzata incessante dei coloni israeliani: case demolite, terre confiscate, violenze sempre più frequenti e sistematiche. Le strade sono disseminate di check-point che isolano villaggi e comunità. Oxfam ha lanciato un appello chiaro e netto: fermare gli affari con i coloni, perché l’occupazione e l’apartheid non possono essere normalizzati.

Eppure, nonostante questa realtà sotto gli occhi di tutti, la comunità internazionale appare inerte. L’Europa balbetta, gli Stati Uniti continuano a garantire il sostegno militare a Israele, i governi si limitano a dichiarazioni di circostanza. E le opinioni pubbliche, spesso, preferiscono non vedere. È quella che monsignor Giovanni Ricchiuti, presidente di Pax Christi e arcivescovo emerito di Altamura-Gravina-Acquaviva delle Fonti, definisce «l’ignavia dei potenti», ma anche delle persone comuni, di ciascuno di noi.

Negli ultimi mesi Ricchiuti è stato tra i firmatari della rete internazionale dei Preti contro il genocidio, un’iniziativa che ha raccolto oltre seicento firme di sacerdoti e vescovi nel mondo. Non si tratta di un documento ufficiale delle conferenze episcopali, ma di un gesto personale e diretto di uomini di Chiesa che non vogliono restare in silenzio davanti a quella che definiscono senza esitazione una pulizia etnica.

Monsignor Ricchiuti è stato testimone diretto delle restrizioni israeliane. Lo scorso agosto, arrivando all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, ha visto il respingimento e l’espulsione di don Nandino Capovilla, storico esponente di Pax Christi. «Israele non vuole testimoni scomodi», commenta. Ma lui continua a parlare, a denunciare, a mobilitare coscienze. Lo incontriamo per un lungo dialogo sul genocidio in corso, sull’urgenza della pace e sulle responsabilità di ciascuno.



Eccellenza, lei ha più volte usato la parola genocidio per descrivere quello che sta accadendo a Gaza. Non è un termine troppo pesante?
«Non è una parola esagerata. A Gaza assistiamo a un progetto di distruzione sistematica. Migliaia di civili uccisi, ospedali bombardati, scuole colpite, campi profughi trasformati in tombe. In Cisgiordania violenze e soprusi quotidiani. Io credo che dobbiamo chiamare le cose con il loro nome: è un genocidio. Punto. Poi qualcuno potrà discutere se si tratti di un massacro o di rappresaglia. Ma la sostanza non cambia: è la cancellazione di un popolo. E davanti a questo non possiamo tacere».

Molti, in Europa, sostengono che Israele stia solo “difendendosi” e rispondendo al 7 ottobre ma è davvero così?
«Si usa questa parola, “risponde” per giustificare tutto. Certo, nessuno di noi accetta la violenza del 7 ottobre, nessuno ha giustificato l’attacco di Hamas e la presa di ostaggi. Ma la storia non comincia lì. Comincia decenni prima, con l’occupazione, le confische di terre, la discriminazione quotidiana. Dire che “tutto inizia il 7 ottobre” è falso e ingiusto. Non è difesa quella che vediamo: è annientamento».

Lei presiede Pax Christi, movimento internazionale per la pace. Che cosa significa oggi essere “profeti di pace”?
«Significa andare controcorrente. Quando nel 2022 è scoppiata la guerra in Ucraina, abbiamo subito detto: “Tacciano le armi”. Non era ingenuità, era consapevolezza che la via militare avrebbe solo moltiplicato morte e distruzione. Tre anni dopo, i fatti ci danno ragione: più armi, più vittime, nessuna pace. Lo stesso accade oggi con Gaza. Essere profeti di pace significa gridare che la violenza non salva, anche se questo ci espone a derisioni e accuse di ingenuità. Ma la coscienza evangelica non può accettare la logica delle armi».

Molti accusano i pacifisti di “indebolire l’Europa”. Come risponde?
«Questa è la grande bugia che ci viene raccontata. Si dice: chi non accetta le armi non è realista, vuole solo indebolire l’Occidente. Ma la verità è che i pacifisti sono l’unica voce che propone davvero un futuro diverso. Le marce, le manifestazioni, le veglie di preghiera, le carovane di pace in Ucraina e in Palestina dimostrano che esiste un popolo che non si rassegna. Io stesso ho partecipato a una di queste carovane, e ho visto la forza concreta di un impegno fatto di aiuto umanitario e di interposizione nonviolenta».



Che ruolo ha la Chiesa in questo contesto? 
«Papa Francesco non ha mai smesso di denunciare. Ha parlato con chiarezza, chiedendo tregue, condannando le stragi, invocando la pace. Ma io credo che in molte conferenze episcopali, in Europa, non si è fatto abbastanza. Non ricordo un documento forte del Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee sulla Palestina. E questo pesa. Si invoca la prudenza, si ricordano i legami con gli ebrei, che sono i nostri fratelli maggiori nella fede. Ma davanti a un popolo che viene annientato non possiamo limitarci a mezze parole. Per questo è nata la rete dei “Preti contro il genocidio”: un appello personale, non di associazioni, perché ciascun sacerdote e vescovo si assumesse la responsabilità di dire un no chiaro».

Oltre 800 firme (al 18 settembre) all’appello: è un segnale forte?
«Sì, è un segno importante. Certo, non tutti i 35 mila preti italiani hanno firmato. Ma la provocazione è arrivata. Non si tratta di schierarsi – questa è logica militare – ma di proporre un cammino di conciliazione, di pace. Dire no al genocidio non significa essere contro qualcuno: significa stare dalla parte della vita, dei poveri, degli innocenti. E questa è la vocazione del Vangelo».

Lei era presente quando don Nandino Capovilla è stato respinto a Tel Aviv. Che impressione le ha fatto?
«È stato uno schiaffo in faccia. Don Nandino non è un estremista, ma un prete che da anni cammina accanto al popolo palestinese, che crede nel dialogo. È stato espulso solo perché Israele non vuole testimoni. Ma se un sacerdote dà fastidio, vuol dire che la sua presenza è preziosa. Noi continueremo ad andare, a portare solidarietà, a testimoniare. Non ci fermeranno con i respingimenti».

Molti si chiedono: ma cosa possono fare i cittadini comuni? Pregare soltanto?
«Pregare è fondamentale, ma non basta. La preghiera deve diventare impegno. Una persona comune può informarsi meglio, rompere la narrazione unica che domina i media. Può partecipare a manifestazioni, firmare appelli, sostenere economicamente ONG e associazioni che lavorano in Palestina. Può scrivere ai propri rappresentanti politici per chiedere lo stop alla vendita di armi a Israele. Può portare il tema nelle parrocchie, nelle comunità. E poi può fare una cosa semplice ma decisiva: non tacere. Perché, lo ripeto, il silenzio è complicità».

Lei ha parlato di un sogno, evocando Martin Luther King. Qual è?
«Sì, ho detto pubblicamente: “Io ho un sogno”. Ed è che il Papa vada a Gaza. Pensate a cosa significherebbe: il Vescovo di Roma che entra in una città distrutta, che abbraccia i bambini feriti, che prega con le famiglie palestinesi. Sarebbe un gesto profetico, capace di scuotere il mondo. Un segno che la pace non è utopia, ma scelta concreta. Non so se e quando accadrà, ma io continuerò a sognarlo, perché la pace ha bisogno di simboli forti. E un Papa a Gaza cambierebbe la storia».