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di Ivano Zoppi, segretario generale Fondazione Carolina
Guardare negli occhi i nostri figli, mettersi in ascolto, anche se non hanno nulla da dire. Sono questi i primi passi per recuperare un rapporto con le nuove generazioni che sembra sfuggire al controllo di noi adulti. Regole, leggi e provvedimenti sono sì necessari, ma non sufficienti.
Il caso di Latina ce lo conferma ancora una volta, le logiche sono sempre le stesse: comprendiamo il disagio, lo scoramento, il malessere dei nostri ragazzi solo quando esplode e si traduce in conseguenze spesso irrimediabili. Troppo tardi, troppo poco. Istituzioni, scuola e genitori credono che i ragazzi vivano sottovento, lontano dai radar degli adulti.
La realtà è che non vedono l’ora di parlare con noi, di cercare un confronto per disporre di uno spunto, un aneddoto, un supporto che li possa aiutare in questo viaggio incredibile che si chiama “crescita”.
Sono loro stessi a chiederlo ogni giorno: “Dove siete?”. Non lo fanno con le parole, non c'è spazio per chiedere aiuto nei fugaci dialoghi alle ore dei pasti, tra un “com’è andata a scuola” e un “perché non metti in ordine camera tua”.
Lo fanno con le condotte, con le note a scuola, con i ritardi, le indolenze e i silenzi inviolabili che classifichiamo banalmente come adolescenza.
La realtà è ben diversa. Fino a che parleremo di colpe e non di responsabilità, fintanto che non troveremo noi il tempo di sederci con loro e guardarli negli occhi, saremo sempre costretti a inseguire. Proviamo invece ad accompagnarli, stando al loro fianco. Proviamo a fare silenzio e a metterci in ascolto, anche se non sembrano dirci nulla.
Se trasmettiamo il nostro desiderio di stare con loro, allora potremo metterci davvero in relazione. Saranno loro ad aprirsi, a cercarci per sondare il terreno.
Questa è la differenza tra riparare qualcosa che si rompe e costruire qualcosa che resiste. Una relazione che resista agli errori che tutti commettiamo in adolescenza. Che resista alla tentazione di tenersi tutto dentro, alla vergogna di non sentirsi bene, di non essere felici e spensierati come noi li immaginiamo.
Prima ancora di parlare di autorità, di obblighi o restrizioni, affrontiamo quindi le nostre mancanze, che poi sono le nostre paure. Quelle che ci portano a negare le piccole, grandi sofferenze dei nostri ragazzi. E allora forse bisogna avere un po’ di coraggio, quel coraggio di educare, di accogliere e di partecipare attivamente alla vita dei nostri giovani. Senza giudicare.
“Cos’hai combinato?!”. “Chi è stato?”. “Perché non me lo hai detto prima?” Difficile ottenere risposte autentiche con questo approccio. Proviamo invece a sorprenderli con una domanda che non si aspettano, nonostante sembri la più scontata di questo mondo, ma che oggi risulta incredibilmente insolita, almeno come chiedere permesso prima di scendere da una metropolitana. “Come stai“, Cosa ne pensi tu?”. Un piccolo esercizio lessicale, ma che trasmette alle nuove generazioni la consapevolezza di poter contare su quelle passate.



