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«Insieme fino alla fine», hanno titolato molti giornali e siti d’informazione nel raccontare la morte delle gemelle Kessler, Alice ed Ellen.
Una formula che pare confezionata per conferire un tono sinistramente glamour, da fiaba moderna. E invece dietro la patina brillante di un racconto mediatico quasi sedotto, o ipnotizzato, da questo gesto, c’è una scelta - il suicidio assistito - che meriterebbe ben altre domande e che lascia doppiamente sgomenti, anche perché le gemelle Kessler sono state non solo amatissime da almeno due generazioni di italiani ma sono state anche l’icona più compiuta della golden age della nostra televisione e le loro performance (a cominciare dal celebre Da-da-un-pa a Studio Uno) sono legate a grandi nomi e programmi della Rai degli anni Sessanta, da Antonello Falqui – che le portò in Italia grazie a quel talent scout di Guido Sacerdote che le notò al Lido di Parigi – a don Lurio, da Mina ad Alberto Sordi, da Pippo Baudo a Raffaella Carrà.
Il copione della morte, ricostruito dai media sulla base delle (poche) notizie emerse finora, è questo: la decisione presa insieme, la volontà di farsi seguire dalla "Deutsche Gesellschaft fuer humanes Sterben" (Dghs), la più grande e antica associazione tedesca che si occupa di suicidio assistito, che aveva il compito di verificare, tramite un medico e un legale, che la loro scelta fosse «libera e responsabile», la volontà di essere cremate nella stessa urna, accanto alla madre e al loro cane.
Non sappiamo se una delle due fosse ammalata, e di cosa, e se la situazione fosse eventualmente precipitata nelle ultime settimane o giorni.
Il pronunciamento con il quale la Corte costituzionale di Karslruhe ha depenalizzato cinque anni fa il suicidio assistito si è limitato a esigere la sola verifica della piena consapevolezza della scelta suicida, non coinvolgendo la sanità pubblica in una decisione considerata del tutto privata, come è accaduto alle gemelle Kessler. La Corte Costituzionale italiana è stata invece molto più cauta e garantista, facendo appello al Parlamento perché legiferi dopo aver previsto delle eccezioni molto circoscritte al principio della punibilità di chi aiuta a suicidarsi una persona che glielo chiede.
L’ultima apparizione in pubblico delle gemelle Kessler, come hanno raccontato i media tedeschi, risale al 24 ottobre scorso in occasione della prèmiere dello spettacolo “ARTistART” del circo professionale tedesco Roncalli a Monaco di Baviera.
La retorica della “libertà”, evocata da diversi commentatori, si è affacciata ancora una volta come la categoria assoluta con cui raccontare (e talvolta giustificare) tutto. Libertà di scegliere quando morire, come morire, con chi morire. Eppure, se la libertà è il perno, il suo contrappeso - il limite - sembra scomparso dal discorso pubblico.
Il risultato è una narrazione levigata, quasi romantica, che presenta come gesto di armonia quello che è, nella sua realtà più nuda, un atto estremo compiuto da due donne di 89 anni che, forse, temevano – ed è un timore umanissimo, che ci affratella tutti – l’ombra della vecchiaia e della fragilità, l’incombere della notte, la possibilità di sopravvivere l’una all’altra dopo una vita e una carriera vissute in totale simbiosi.
Tra i tanti ricordi e dichiarazioni di cordoglio, spicca quella di Iva Zanicchi: «Ogni caso», ha detto, «va letto a sé e noi non conosciamo bene le cose ma a me la notizia della loro scelta sconvolge. La vita è per me così sacra e così preziosa che bisogna avere, diciamolo pure, il coraggio di viverla fino all’ultimo istante, perché è un dono prezioso».
L’esaltazione della libertà come unica possibile lettura della morte delle gemelle Kessler rischia di farci perdere l’occasione per una riflessione più ampia sul senso e il significato anche etico, culturale e sociale del fine vita. Sulla solitudine mascherata da autonomia. Sul terrore della dipendenza trasformato in diritto. Sul ritenere, com’è stato fatto in questo caso, che la morte volontaria con un farmaco letale sia il segno coerente e consequenziale di una “modernità” che le gemelle Kessler avevano inaugurato molti anni fa per il loro uso delle gambe disinvolto, ma mai volgare, nel varietà televisivo.
Quando si spengono le luci della ribalta e cala il penultimo sipario, i personaggi diventano persone. E condividono con tutti noi la fragilità, la paura, il dolore che la vita, nel suo trascorrere, possa diventare senza speranza. O, peggio, inutile.
Forse un’altra chiave possibile per raccontare questa vicenda è quella della solitudine. Quella che spesso travolge le vite più fragili, segnate dalla sofferenza, dal disagio e dall’avanzare dell’età. Vite di cui, forse, non riusciamo più a prenderci cura e nemmeno a parlarne. Anche di fronte a casi dolorosi come questo.



