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Gli occhi sono asciutti. Non versano lacrime. Come se il baratro del dolore che l’ha inghiottita le avesse prosciugate fino all’ultima goccia. Simonetta, la madre di Paolo Mendico, il ragazzo di 14 anni, vittima di bullismo, che nei giorni scorsi si è suicidato nella sua stanza nel comune dei Santi Cosma e Damiano in provincia di Latina, in un’intervista al programma Ignoto su LA7 lo dice con una rassegnazione che aggiunge dolore a dolore: «Al suo funerale (domenica scorsa, ndr) non c'era nessuno. C’era solamente un solo ragazzo con il quale lui andava d’accordissimo, perché era educato proprio come lui. Quando mio figlio si assentava per malattia, l’unico che gli dava i compiti era lui. Ma comunque non c’era nessuno al funerale, neanche i genitori, nessuno».
La ripete per tre volte quella parola: nessuno. Il tono non è accusatorio ma rassegnato. Come se la cattiveria di cui Paolo, dalla quinta elementare al primo anno di Superiori, era stato fatto oggetto in vita – con ripetuti atti di bullismo: matite spezzate, quaderni scarabocchiati, minacce di morte e insulti come “femminuccia”, “Nino D’Angelo” e “Paoletta” sui quali adesso sta indagando la magistratura – non si fosse fermata neppure dopo la sua morte.
Come se il funerale, l’ultimo addio, l’atto supremo di pietas nel quale si prega per i morti e si cerca di consolare chi resta, non fosse – per quei genitori, i loro figli, il dirigente e gli insegnanti della scuola di Paolo – l’ultima occasione per dire a quel ragazzo, ai suoi genitori, alla sua famiglia: «Abbiamo sbagliato, siamo stati stupidi, cattivi, insensibili, vigliacchi, distratti ma adesso cerchiamo di rimediare, anche se è troppo tardi. Portiamo un fiore, diciamo una preghiera silenziosa, per chiederti perdono e per dirti che la tua morte, forse, non sarà invano se dopo questa storia avremo capito».
E per dire a quei genitori affranti che non sono soli. Ipocrisia, potrebbe obiettare qualcuno. No, piuttosto, pietas, tentativo estremo di riconciliazione, coraggio di spezzare la catena dell’odio che chiama sempre altro odio e rinfocola la violenza.
E invece non c’era nessuno. Il funerale di una persona non è un rito burocratico, un passaggio formale, il disbrigo di una pratica ma il momento per pregare – credenti o altro che si sia – per chi se n’è andato e abbracciare chi resta. Questo vale, a maggior ragione, per una vittima di violenza e di bullismo, com’è in questo caso. Non a caso, al Sud, fino a qualche anno fa il funerale veniva chiamato, con una sapienza antica che oggi abbiamo smarrito, “accompagnamento”.
Se la madre di Paolo ha sottolineato più volte che non c’era nessuno al funerale di suo figlio è perché, forse, si aspettava quell’abbraccio, fosse anche da parte di qualche bullo che aveva bersagliato suo figlio e dei suoi genitori, quell’accompagnamento, quella presenza che, anche muta, anche imbarazzata, come poteva essere in questo caso, lenisce, accarezza, conforta, fa sentire meno soli.
Nessuno, invece, è stato l’ultimo atto di bullismo che ha trafitto Paolo. Come se la solitudine e l’isolamento di cui era stato vittima in vita non potessero essere spezzate neanche da morto.
«Ho chiesto a sua madre se Paolo aveva qualche amico con cui confidarsi», ha raccontato don Fabio Gallozzi, il parroco del paese che ha celebrato il funerale, «perché sapevo che andava a suonare la batteria e il basso in un’associazione, la Black Light Project. E chi suona la batteria, mi dicevo, deve per forza suonare in un gruppo. Ma la mamma mi ha detto che suonava da solo, a volte con il papà».
Solo fino all’ultimo, Paolo. In vita e in morte.
«Ti chiediamo scusa per non aver capito», ha detto don Fabio nell’omelia. Una richiesta che chiama in causa tutti.



