PHOTO
C i sono giorni che segnano autentici spartiacque nella vita di ciascuno. Per Luchia Mesfun, 26 anni, eritrea, quel giorno segna la data del 7 ottobre 2015. Appena approda in Italia mette alla luce sua figlia che decide di chiamare Libertà. Un nome che è un auspicio. «Mentre partorivo ho capito che ce l’avrei fatta, che sarebbe stato possibile salvarsi», dice ora aiutata dall’interprete che traduce in italiano la sua lingua, il tigrigno, mentre è seduta nel Centro di accoglienza richiedenti asilo (Cara) di Castelnuovo di Porto, trenta chilometri a Nord di Roma, un ex centro polifunzionale della Protezione Civile tra l’A1 e la Flaminia che ospita quasi 900 migranti, di cui più della metà musulmani.
In Eritrea, una sorta di Corea del Nord del Corno d’Africa, Luchia lavorava come segretaria. «Il regime soffocava ogni libertà, non potevo più lavorare», ricorda, «per questo decisi di scappare da sola». La seguirà il papà di sua figlia del quale adesso ha perso le tracce. «Non so neanche se è vivo», rivela. Va in Etiopia, poi in Sudan, infine in Libia dove viene messa in prigione per un paio di mesi. «Mi picchiavano con i bastoni, non c’era un posto dove dormire», ricorda, «avevo paura di morire insieme con mia figlia che portavo in grembo». La Pasqua di Luchia ha il sapore dolce di chi s’è lasciato alle spalle l’inferno. La sua domanda di asilo politico in Francia è stata accettata ed è partita il 25 marzo, Venerdì Santo. L’ultimo giorno in Italia, il 24, è stato un giorno particolare. Perché a lavare e baciare i suoi piedi, ripetendo il gesto che fu di Gesù nel Cenacolo, è arrivato papa Francesco.
I profughi che sbarcano sulle nostre coste sono gli esclusi a priori dell’umanità. Per questo il Papa ha scelto loro. Sira Madigata, 36 anni, musulmano del Mali, lo dice quasi con pudore: «Sì, il Papa ha un debole per noi». E Khurram Shahzad, 25 anni, anch’egli musulmano, spiega: «Il senso di umanità viene prima della religione. È questo l’insegnamento del Papa che è venuto qui a lavare i piedi anche a me che non sono cattolico».
Gli angeli custodi della Cooperativa Auxilium, che gestisce il Cara da due anni, hanno le schede di ognuno di coloro a cui Bergoglio ha lavato i piedi. Quella di Khurram, alla voce “percorso del viaggio”, reca queste tappe: Iran, Turchia, Grecia, Macedonia, Serbia, Ungheria, Austria e infine Italia dove è arrivato il 1° settembre del 2015. «Ho camminato a piedi per chilometri e chilometri», ricorda, «poi in autobus e sui treni. Ora sto aspettando l’esito della richiesta d’asilo». Il futuro? «Vorrei prendere la licenza media e aprire un’attività commerciale». Khurram ha cucito insieme le bandiere dei 25 Paesi degli ospiti presenti al Cara e insieme con gli altri compagni l’ha portata in piazza San Pietro il 17 gennaio per il Giubileo dei migranti e dei rifugiati.
Sira, che indossa la maglietta della Roma, parla tre lingue (francese, bambarà, portoghese), è fuggito dal Mali nel 2012 quando è scoppiata la guerra, ha attraversato il Niger, poi è andato in Libia prima di approdare a Taranto il 21 luglio 2014. «Da quando sono arrivato al Cara ho trovato una famiglia», racconta. Qui ci sono, una accanto all’altra, la chiesa e la moschea. «La convivenza si impara giorno per giorno», dice, «per noi è importante avere un luogo per pregare».
Gli ospiti del Cara di Castelnuovo provengono da 25 Paesi diversi, tra cui 15 Stati africani e 9 asiatici. È un crogiolo delle disuguaglianze e delle miserie del mondo. Il gruppo più numeroso viene dall’Eritrea (279 persone), seguito dal Mali (135) e dalla Nigeria (94). Su 892 ospiti, 849 sono uomini, 36 le donne, sette i minori. L’ottanta per cento sono giovani con un’età compresa tra i 19 e i 26 anni, ma c’è anche una famiglia irachena che comprende quattro generazioni, dalla bisnonna ai nipoti. La maggioranza degli ospiti (557) sono musulmani, ma ci sono anche 239 cristiani (copti, cattolici, protestanti) 94 pentecostali e 2 indù. A uno di loro, Kunal Sharma, il Papa ha lavato i piedi il Giovedì Santo. Parla hindi e inglese, frequenta il corso di italiano come molti suoi compagni che tra queste mura hanno imparato bene la nostra lingua.
Lucia Yrgalem, 20 anni, cristiana copta, ha dato alla luce la figlioletta due settimane fa e l’ha chiamata Speranza. È scappata anche lei come Luchia dall’Eritrea dove faceva la barista. «A entrambe le mamme il Papa ha lavato i piedi», ricorda Angelo Chiorazzo, fondatore della cooperativa Auxilium che ha scelto i dodici per il rito del Giovedì Santo.
«Il 20 per cento dei migranti qui sono richiedenti asilo inseriti nel progetto Relocation», termina Chiorazzo, «il 70 per cento s’è visto negare la richiesta ed è in attesa dell’esito del ricorso al Tribunale mentre il 10 per cento attende una seconda accoglienza o lo status di rifugiato».
In Eritrea, una sorta di Corea del Nord del Corno d’Africa, Luchia lavorava come segretaria. «Il regime soffocava ogni libertà, non potevo più lavorare», ricorda, «per questo decisi di scappare da sola». La seguirà il papà di sua figlia del quale adesso ha perso le tracce. «Non so neanche se è vivo», rivela. Va in Etiopia, poi in Sudan, infine in Libia dove viene messa in prigione per un paio di mesi. «Mi picchiavano con i bastoni, non c’era un posto dove dormire», ricorda, «avevo paura di morire insieme con mia figlia che portavo in grembo». La Pasqua di Luchia ha il sapore dolce di chi s’è lasciato alle spalle l’inferno. La sua domanda di asilo politico in Francia è stata accettata ed è partita il 25 marzo, Venerdì Santo. L’ultimo giorno in Italia, il 24, è stato un giorno particolare. Perché a lavare e baciare i suoi piedi, ripetendo il gesto che fu di Gesù nel Cenacolo, è arrivato papa Francesco.
I profughi che sbarcano sulle nostre coste sono gli esclusi a priori dell’umanità. Per questo il Papa ha scelto loro. Sira Madigata, 36 anni, musulmano del Mali, lo dice quasi con pudore: «Sì, il Papa ha un debole per noi». E Khurram Shahzad, 25 anni, anch’egli musulmano, spiega: «Il senso di umanità viene prima della religione. È questo l’insegnamento del Papa che è venuto qui a lavare i piedi anche a me che non sono cattolico».
Gli angeli custodi della Cooperativa Auxilium, che gestisce il Cara da due anni, hanno le schede di ognuno di coloro a cui Bergoglio ha lavato i piedi. Quella di Khurram, alla voce “percorso del viaggio”, reca queste tappe: Iran, Turchia, Grecia, Macedonia, Serbia, Ungheria, Austria e infine Italia dove è arrivato il 1° settembre del 2015. «Ho camminato a piedi per chilometri e chilometri», ricorda, «poi in autobus e sui treni. Ora sto aspettando l’esito della richiesta d’asilo». Il futuro? «Vorrei prendere la licenza media e aprire un’attività commerciale». Khurram ha cucito insieme le bandiere dei 25 Paesi degli ospiti presenti al Cara e insieme con gli altri compagni l’ha portata in piazza San Pietro il 17 gennaio per il Giubileo dei migranti e dei rifugiati.
Sira, che indossa la maglietta della Roma, parla tre lingue (francese, bambarà, portoghese), è fuggito dal Mali nel 2012 quando è scoppiata la guerra, ha attraversato il Niger, poi è andato in Libia prima di approdare a Taranto il 21 luglio 2014. «Da quando sono arrivato al Cara ho trovato una famiglia», racconta. Qui ci sono, una accanto all’altra, la chiesa e la moschea. «La convivenza si impara giorno per giorno», dice, «per noi è importante avere un luogo per pregare».
Gli ospiti del Cara di Castelnuovo provengono da 25 Paesi diversi, tra cui 15 Stati africani e 9 asiatici. È un crogiolo delle disuguaglianze e delle miserie del mondo. Il gruppo più numeroso viene dall’Eritrea (279 persone), seguito dal Mali (135) e dalla Nigeria (94). Su 892 ospiti, 849 sono uomini, 36 le donne, sette i minori. L’ottanta per cento sono giovani con un’età compresa tra i 19 e i 26 anni, ma c’è anche una famiglia irachena che comprende quattro generazioni, dalla bisnonna ai nipoti. La maggioranza degli ospiti (557) sono musulmani, ma ci sono anche 239 cristiani (copti, cattolici, protestanti) 94 pentecostali e 2 indù. A uno di loro, Kunal Sharma, il Papa ha lavato i piedi il Giovedì Santo. Parla hindi e inglese, frequenta il corso di italiano come molti suoi compagni che tra queste mura hanno imparato bene la nostra lingua.
Lucia Yrgalem, 20 anni, cristiana copta, ha dato alla luce la figlioletta due settimane fa e l’ha chiamata Speranza. È scappata anche lei come Luchia dall’Eritrea dove faceva la barista. «A entrambe le mamme il Papa ha lavato i piedi», ricorda Angelo Chiorazzo, fondatore della cooperativa Auxilium che ha scelto i dodici per il rito del Giovedì Santo.
«Il 20 per cento dei migranti qui sono richiedenti asilo inseriti nel progetto Relocation», termina Chiorazzo, «il 70 per cento s’è visto negare la richiesta ed è in attesa dell’esito del ricorso al Tribunale mentre il 10 per cento attende una seconda accoglienza o lo status di rifugiato».



