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Davide sorrideva spesso. Era uno dei segni della sua malattia: la sindrome di Angelman. I genitori, Matteo e Angela, l’avevano iscritto all’associazione “Sorriso Sport Disabili” di Mira, nel Veneziano, dove domenica 5 ottobre aveva partecipato anche ad una gara di atletica. “Trofeo Sorriso”, si chiamava. Anche se in quella vita segnata dalla difficoltà di camminare e parlare non c’era molto da sorridere.
Unico, grandioso, raggio di luce il sostegno e la cura amorevole dei genitori. «Davide», hanno detto i vicini di Spinea, puntuali come il coro in una tragedia greca, «ha iniziato tardi a camminare, ma aveva fatto passi importanti. L’abbiamo visto crescere, era emozionante vedere come il papà Matteo e la mamma Angela si prendevano cura di lui».
Lo scrittore Giuseppe Pontiggia sosteneva che i bambini disabili nascono sempre due volte: la prima li vede impreparati al mondo, la seconda è una rinascita affidata all'amore, all’intelligenza e alla dedizione degli altri. Così, forse, è stato anche per il piccolo Davide.
Solo che ad un certo punto ha preso il sopravvento la disperazione e la paura, umanissima, di non farcela più. Domenica pomeriggio, mentre i genitori erano a Perugia per un convegno su quella malattia genetica rara e incurabile del figlio, nonno Danilo ha sollevato Davide dalla carrozzina, probabilmente gli ha dato un'ultima carezza, poi lo ha abbracciato forte e ha deciso il destino di entrambi gettandosi in un fiume e annegando insieme. I corpi li hanno trovati abbracciati mentre galleggiavano lungo l'Adigetto di Lendinara, a Rovigo.
Impossibile capire cosa sia passato nella mente e nel cuore di quest’uomo che pure amava quel nipotino fragile e sfortunato. Il cuore umano è un abisso, un «guazzabuglio». Nessun giudizio è davvero possibile se non un silenzio rispettoso e pietoso. Unica risposta possibile, forse, all’irriducibile sofferenza di quel nonno, al suo grido muto di aiuto.
Unico, grandioso, raggio di luce il sostegno e la cura amorevole dei genitori. «Davide», hanno detto i vicini di Spinea, puntuali come il coro in una tragedia greca, «ha iniziato tardi a camminare, ma aveva fatto passi importanti. L’abbiamo visto crescere, era emozionante vedere come il papà Matteo e la mamma Angela si prendevano cura di lui».
Lo scrittore Giuseppe Pontiggia sosteneva che i bambini disabili nascono sempre due volte: la prima li vede impreparati al mondo, la seconda è una rinascita affidata all'amore, all’intelligenza e alla dedizione degli altri. Così, forse, è stato anche per il piccolo Davide.
Solo che ad un certo punto ha preso il sopravvento la disperazione e la paura, umanissima, di non farcela più. Domenica pomeriggio, mentre i genitori erano a Perugia per un convegno su quella malattia genetica rara e incurabile del figlio, nonno Danilo ha sollevato Davide dalla carrozzina, probabilmente gli ha dato un'ultima carezza, poi lo ha abbracciato forte e ha deciso il destino di entrambi gettandosi in un fiume e annegando insieme. I corpi li hanno trovati abbracciati mentre galleggiavano lungo l'Adigetto di Lendinara, a Rovigo.
Impossibile capire cosa sia passato nella mente e nel cuore di quest’uomo che pure amava quel nipotino fragile e sfortunato. Il cuore umano è un abisso, un «guazzabuglio». Nessun giudizio è davvero possibile se non un silenzio rispettoso e pietoso. Unica risposta possibile, forse, all’irriducibile sofferenza di quel nonno, al suo grido muto di aiuto.



