Secondo recenti dati forniti durante il convegno "Equilibrio tra vita e lavoro. L'integrazione della donna nell'economia" l'occupazione femminile nel nostro Paese è ferma al 46,4% (al Sud ancora meno: solo 40%). Meno di una donna su due, in altri termini, risulta occupata. La situazione cambia sostanzialmente se allarghiamo la visuale: in Europa la percentuale di occupazione femminile arriva al 58%.
Se il divario di genere in Italia si riducesse fino ad annullarsi, cosa possibile solo con una decisa politica familiare per conciliare i tempi di lavoro e della famiglia, il surplus di lavoro femminile genererebbe un aumento del Pil fino al 24% del valore attuale. Se oggi il Pil è così depresso, dunque, è in parte per la minore occupazione delle donne ma anche, cosa nota, per il consistente gap salariale rispetto agli uomini, che si attesta intorno al 20%. Fatto abbastanza inspiegabile se si considera che, come ha detto la giornalista del Sole24ore Monica D'Ascenzo, «il 60% dei laureati è donna, con una media alla laurea e degli esami più alta rispetto agli uomini» mentre «la percentuale di occupazione femminile nelle aziende è ferma solo al 7,2%». E' il settore pubblico, dunque, che contribuisce ad alzare la media dell'occupazione femminile.
«La forma oggi più inquietante e preoccupante di conflitto identitario, nel mondo occidentale, non è quello di civiltà ma quello di genere», ha rincarato l'economista Stefano Zamagni. «Non abbiamo ancora una teoria che ci aiuti a risolverlo, cioè un pensiero che avanzi ipotesi di soluzione e li metta alla verifica empirica. Bisogna quindi passare dal regime concessorio a quello del riconoscimento», ha proseguito. Zamagni ha insistito su una responsabilità familiare delle imprese e ha invitato le aziende a promuovere un welfare di tipo aziendale. In questo campo, se un primo stimolo deve venire sicuramente dallo Stato, a un secondo livello dovrebbero essere invece le imprese e il Terzo Settore a fungere da volano: laddove le piccole realtà aziendali non abbiamo le capacità di finanziamento dei servizi a favore della donne occorrerebbe passare a una sorta di welfare di territorio: «le aziende devono imparare a consorziarsi, per dar vita a cooperative di comunità». Un auspicio che in qualche regione sta già diventando realtà.
Se il divario di genere in Italia si riducesse fino ad annullarsi, cosa possibile solo con una decisa politica familiare per conciliare i tempi di lavoro e della famiglia, il surplus di lavoro femminile genererebbe un aumento del Pil fino al 24% del valore attuale. Se oggi il Pil è così depresso, dunque, è in parte per la minore occupazione delle donne ma anche, cosa nota, per il consistente gap salariale rispetto agli uomini, che si attesta intorno al 20%. Fatto abbastanza inspiegabile se si considera che, come ha detto la giornalista del Sole24ore Monica D'Ascenzo, «il 60% dei laureati è donna, con una media alla laurea e degli esami più alta rispetto agli uomini» mentre «la percentuale di occupazione femminile nelle aziende è ferma solo al 7,2%». E' il settore pubblico, dunque, che contribuisce ad alzare la media dell'occupazione femminile.
«La forma oggi più inquietante e preoccupante di conflitto identitario, nel mondo occidentale, non è quello di civiltà ma quello di genere», ha rincarato l'economista Stefano Zamagni. «Non abbiamo ancora una teoria che ci aiuti a risolverlo, cioè un pensiero che avanzi ipotesi di soluzione e li metta alla verifica empirica. Bisogna quindi passare dal regime concessorio a quello del riconoscimento», ha proseguito. Zamagni ha insistito su una responsabilità familiare delle imprese e ha invitato le aziende a promuovere un welfare di tipo aziendale. In questo campo, se un primo stimolo deve venire sicuramente dallo Stato, a un secondo livello dovrebbero essere invece le imprese e il Terzo Settore a fungere da volano: laddove le piccole realtà aziendali non abbiamo le capacità di finanziamento dei servizi a favore della donne occorrerebbe passare a una sorta di welfare di territorio: «le aziende devono imparare a consorziarsi, per dar vita a cooperative di comunità». Un auspicio che in qualche regione sta già diventando realtà.


