Da quando è alla guida dell’Autorità nazionale anticorruzione Raffaele Cantone continua a viaggiare per l’Italia da uno scandalo all’altro: prima l’Expo di Milano, con alcuni imputati già protagonisti della Tangentopoli del ’92, poi il Mose di Venezia e infine Roma, sede del vortice di tangenti e appalti scoperchiati dall’inchiesta della Procura capitolina battezzata Mafia Capitale, dove si occuperà degli appalti sospetti.
E forse, domani, chissà quale altro sistema metropolitano di appalti e mazzette.
«L’esperienza di Expo ci insegna che se metti in campo un apparato di indagine valido le infiltrazioni mafiose le trovi tutte», ha spiegato Cantone, riferendosi all’azione della magistratura. Quello dell’Autorità nazionale anticorruzione è più un ruolo di prevenzione, monitoraggio e controllo (anche se ovviamente le disfunzioni vengono segnalate all’autorità giudiziaria), ma è anche il sintomo di una malattia sociale, di una febbre corruttiva che non si riesce a curare e che da soli Cantone e i suoi uomini non potranno mai risolvere.
«Non sono un taumaturgo, non sono il Di Pietro di Tangentopoli», continua a ripetere ad ogni occasione. Proprio così. Non può bastare un uomo, anche se si parla di un magistrato-eroe che ha sconfitto la camorra e il clan dei Casalesi (la Gomorra raccontata da Roberto Saviano), né possono bastare leggi più severe sulla corruzione (come quelle del pacchetto di norme presentato dal Governo).
La lotta alla corruzione è soprattutto un fenomeno educativo: riguarda comportamenti morali, di costume, perfino antropologici, premette il presidente dell’Autorità in ogni incontro pubblico.
Quanti anni ci vorranno, considerato che il terremoto di Tangentopoli non ci ha insegnato nulla?
«Bisogna incentivare la legalità, persino renderla conveniente», continua a ricordare Cantone, «perché la corruzione è soprattutto un danno sociale, e alla lunga non conviene, frena la competitività, la ricerca e l’innovazione. Se un’azienda ha bisogno solo delle mazzette per ottenere un appalto, che bisogno ha di fare ricerca e di migliorare i suoi servizi e i suoi prodotti?».
Fa un lavoro complicato, questo magistrato campano abituato a indagare e riflettere sui sordidi interstizi tra criminalità e potere, su quel “terzo livello” dove tutto avviene e dove tutto si decide. Fa un lavoro complicato, eppure gli si chiede il “miracolo”: fai sparire la corruzione in Italia, come la liquefazione del sangue di San Gennaro.
Del resto, anche se non bastano per colmare il vuoto profondo di questi vent’anni inutili, con tutte le sue conseguenze, ci vorrebbero anche leggi più efficaci. «Passata Tangentopoli non c’è stata alcuna stigmatizzazione dei reati corruttivi. Su certe materie si è andati addirittura a peggiorare».
Si è fatto finta di niente: il paravento dell’indifferenza per nascondere pudicamente l’esercizio ritrovato della corruzione, quando la maggioranza degli italiani pensava che con la megainchiesta di Mani pulite che aprì le porte all’ingresso della Seconda Repubblica ormai avevamo toccato il fondo.
E invece il fondo non era stato ancora toccato, la politica ha raggiunto tali vette di corruzione, come dimostra l’inchiesta sulla mafia a Roma, ha prodotto una tale “selezione della specie”, che i politici non sono nemmeno più padroni del gioco, com’era ai tempi di Tangentopoli. Non è più il politico che dirige le danze, ma l’imprenditore e il mafioso.
Il politico si accontenta di essere messo a libro paga del boss, lucra la sua brava rendita, il suo bel vitalizio, in cambio della propria rete di relazioni messa a disposizione e della propria “professionalità”. Oltre che, naturalmente, produrre leggi che favoriscano questo stato di cose.
In questi anni la normativa contro la corruzione si è addirittura indebolita perché sono aumentati i tempi della prescrizione e si è depenalizzato il falso in bilancio.
E non c’è stata solo la volontà politica di Berlusconi, ma l’approvazione senza condizione della maggior parte degli industriali, liberi di poter scrivere in partita doppia quel che volevano, nascondendo la polvere sotto il tappeto.
Ecco perché Raffaele Cantone, da solo, è necessario all’Italia, ma non può bastare. Anzi, paradossalmente, c’è il rischio che affidando a lui la sacra missione tutti gli altri trovino la scusa per disinteressarsene.