PHOTO
Riforma del senato sì, riforma del Senato no. Il dibattito è aperto ma finora ha tenuto un profilo molto politico, per niente tecnico. Da un lato chi accusa il Governo di troppa fretta di cambiare con l’occhio solo ai costi, dall’altro chi taccia i “preoccupati” di “parrucconismo”. Proviamo a cambiare prospettiva, a entrare nel merito con il Roberto Bin, professore di Diritto costituzionale a Ferrara per rispondere a domande e dubbi, nel metodo e nel merito.
Professore, c’è o non c’è in questa riforma il rischio di sbilanciare, in un momento di venti antidemocratici sull’Europa, il potere sul Governo, terremotando la Costituzione?
«Direi che le preoccupazioni questa volta sono eccessive, questa riforma mi pare molto diversa da quella approvata nel 2006: quella era un rafforzamento dei poteri dell’esecutivo a detrimento del Parlamento, questa è un modo per rendere più efficiente il Parlamento, che di fatto in questi anni è stato esautorato dal Governo con un ricorso eccessivo al decreto legge, al maxiemendamento, al voto di fiducia, con la complicità del Parlamento. Questa riforma disciplina l’uso del decreto legge, cerca di risolvere il problema, di cui parliamo da almeno vent’anni e che si risolve solo portando le autonomie locali in Parlamento».
Intende l’eterno conflitto di competenze legislative tra Stato e Regioni?
«Le Regioni spesso fanno folclore, anche perché non riescono a fare nulla di serio perché bloccate dalla burocrazia ministeriale. La lobby di un Governo cosiddetto federalista ha stoppato tutte le leggi regionali della Lombardia e del Veneto, da quanto è schizofrenico il sistema. La conflittualità si risolve solo preventivamente favorendo il coordinamento tra centro e periferia».
Questa riforma è una soluzione possibile al conflitto?
«Sì, non è la soluzione perfetta, ma la perfezione non è di questo mondo. E quando si sta in fondo al buco, la priorità non è dove trascorrere l’estate, ma uscire dal buco. Questo è un sistema per uscirne, spero che sia migliorato».
Con una camera sola si rischia di scrivere leggi peggiori, dato per assodato che già se ne scrivono di scadenti con la doppia lettura?
«Il problema è enorme: la produzione legislativa italiana è tremenda, io da tecnico del diritto non sono più in grado di leggere una legge. Sta saltando lo Stato di diritto per quanto le leggi sono mal scritte, ma il bicameralismo ha peggiorato la situazione, perché ha legittimato il Governo a intervenire con decreti e maxiemendamenti facendo fuori di fatto l’autonomia legislativa delle Camere, moltiplicando l’impatto della burocrazia e delle lobby, perché il fatto di avere due camere con gli stessi poteri ha raddoppiato la possibilità dei gruppi di interesse di fare pressione, peggiorando sempre le leggi».
Che si può fare per migliorare?
«Una cosa essenziale di cui la riforma non parla: usare le grandi risorse tecniche che ci sono nel Senato per mettere nella Camera un filtro tecnico delle leggi, ma per quello non servono norme costituzionali, bastano norme regolamentari».
Possiamo spiegare al cittadino medio perché è così importante modificare il titolo V?
«Noi abbiamo un sistema cambiato più volte ma mai nel suo errore di fondo: la convinzione che bastasse un elenco di etichette (turismo, ambiente…) per governare la separazioni di compiti di organi politici che devono affrontare temi seri. Ma nessun problema serio sta dentro un’etichetta: si pensi all’ambiente, ora riguarda l’industria, ora l’edilizia, ora la prevenzione delle frane…Organizzare la competenza di Stato e Regioni in base alle materie è un errore, in cui la riforma persiste, un po’ migliorando con l’accenno alle politiche regionali. In tutti i Paesi non sono le etichette a governare i processi politici, le etichette servono a farsi causa quando non c’è l’accordo, ma è fondamentale che si trovi l'accordo. Su questo la Costituzione del 1948, né la riforma del 2001 nulla dicono, ora questa riforma va in direzione di una soluzione ponendo sul piatto la regionalizzazione del Senato, non è ancora la soluzione ma la direzione è quella».
Quali punti di questa riforma andrebbero migliorati?
«Il primo è di metodo politico: non mi preoccupano le voci dissenzienti dei politici è un loro diritto, ma a Renzi devo dare il merito di aver capito che le leggi non si contrattano. Il punto debole metodologico è che un’unica organizzazione di interesse continua a essere sentita ed è l’Anci, l’associazione dei sindaci, che rischiano di fare più l’interesse dell’associazione che quello delle autonomie, condizionando la scrittura tecnica della riforma. E questo è sbagliato».
E nel testo che cosa non va?
«Ci sono anche evidenti cavolate: perché il Presidente della Repubblica dovrebbe nominare 21 senatori (21 perché 21 sono le regioni)? Non sta in piedi: nella camera delle autonome dove i presidenti di Regioni e sindaci devono parlare di politica istituzionale non di politica culturale, devono votare e devono confrontare i loro interessi, non ci possono essere 21 signori che determinano i quorum e le maggioranze. E poi nessuno pensa di pagarli? Pretendiamo che lascino le cose che fanno per prendere il treno e andare a Roma gratis? Cos’è un’eredità aristocratica? Altra cosa più importante e meno vistosa, per debolezza tecnica si scrive che le Regioni sono rappresentate tutte con lo stesso peso: vuol dire che in proporzione il cittadino molisano è rappresentato 40 volte di più del cittadino lombardo. Ma le piccole regioni che non danno soldi non possono avere la stessa voce in capitolo nel decidere le tasse e la distribuzione delle ricchezze. È un errore tecnico. Questo interessa ai sindaci, che il dibattito del nuovo senato non sia tra Lombardia e Molise, ma tra regioni e Comuni. Il rischio è paralizzare il Senato».
Quale meccanismo alternativo potrebbe funzionare?
«Il sistema funzionerebbe bene se si applicasse il principio che vale nei sistemi funzionanti, Germania per esempio: le Regioni, che hanno voti di peso diverso, li esprimono unitariamente. Uno solo, sindaco, o presidente di regione, o altro, raccoglie i voti e va a rappresentare gli interessi del suo territorio. Invece il disegno della riforma va in direzione opposta, i consigli regionali e le assemblee dei comuni votano i loro rappresentanti in Senato con voto limitato, che è un sistema per tutelare i diritti delle minoranze. Vorrà dire che ogni Regione sarà rappresentata dal presidente di regione e da un gruppo di signori di diverso colore politico, col risultato che il nuovo Senato si riorganizzerà in gruppi politici, che si muoveranno con una logica politica facendo saltare la camera di rappresentanza dei territori. Il diavolo sta nei particolari. Ci vorrebbe una classe politica con maggior senso delle autonomie, che capisse che fare da Roma leggi da applicare in periferia se non si convince la gente ad applicarle, non verranno applicate ma impugnate. E questo crea contenzioso e si ricorre alla corte Costituzionale, non sarebbe meglio mettersi d’accordo prima?».
Crozza direbbe, ma le Regioni non sono il posto dove si mettono in nota spese le mutande?
«Sì è persa nel Paese tutto moralità istituzionale, nelle Regioni e nelle Camere ci sono persone che si fanno eleggere per farsi i fatti loro: ci sono scandali di cui nessuno parla. Tutti noi abbiamo pagato per decenni gli avvocati del principe per stare in Parlamento e non andarci mai. Lo scandalo è ovunque, nelle Regioni, in Parlamento…L’altra questione fondamentale è che bisognerebbe ripristinare la responsabilità politica: ma ad attivarla devono essere i cittadini non la Corte dei conti. Se voti un’amministrazione che fa il buco nel bilancio e l’anno dopo ti raddoppiano l’Irpef la volta dopo ci stai attento. Chi vota il Razzi di turono deve assumersene la responsabilità».



