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Cari amici lettori, il numero di Credere in uscita questa settimana corrisponde alla seconda domenica dopo Pasqua o “della Divina misericordia”. Vi compare uno dei personaggi del Vangelo più conosciuti – Tommaso, rimasto nella nostra memoria collettiva come “l’incredulo”.
A ben vedere, questo discepolo – il cui nome significa “gemello” – ci somiglia tanto. Ma la sua figura non si può racchiudere solo nel dubbio e nell’incredulità. Vediamone alcuni aspetti che ne fanno una figura esemplare e ce lo rendono vicino.
«Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro [i discepoli, ndr] quando venne Gesù». I Dodici hanno fatto esperienza – «hanno visto» – il Risorto: Tommaso no, non c’era. In questo assomiglia a noi credenti che non abbiamo “visto” e “udito” Gesù. Da qui viene il suo dubbio, etichettato dall’evangelista come incredulità.
Tommaso non vuole rimettersi alla testimonianza ecclesiale, potremmo dire, ma vuole fondare la sua fede su una “esperienza” personale. Non gli basta la mediazione degli altri, della Chiesa, vuole avere un accesso diretto al Risorto. E perciò “piegare” Dio alla propria esigenza di una prova diretta.
Chissà, forse è stata «una pessima testimonianza», come afferma in una meditazione, don Tonino Bello?
Il compianto vescovo di Molfetta traccia un parallelismo tra Tommaso e noi: «Il dubbio è divenuto cultura. L’incredulità, virtù. La diffidenza, sistema. A tal punto, che introduciamo nella nostra vita solo ciò che passa attraverso il delirio dei nostri palpeggiamenti». Come non riconoscervi anche le nostre difficoltà nella fede?
Nella sua misericordia, Cristo risorto però va incontro al desiderio di Tommaso e lo converte in fede. Significativo è che Gesù appaia nella cornice di un’assemblea domenicale («otto giorni dopo»): l’evangelista suggerisce così la celebrazione liturgica come luogo privilegiato dell’esperienza del Risorto.
Ed è la parola di Gesù, sovrana e amichevole a un tempo, che conduce Tommaso dall’incredulità alla fede, facendogli capire che il Risorto è ormai “altro” dall’esperienza empirica a cui il discepolo vorrebbe sottoporlo. Significativamente, non si dice che Tommaso abbia steso la mano per verificare: si arrende alla parola di Gesù, accettando che ormai sia “fuori della sua portata”, e giungendo alla confessione di fede più alta registrata dal Vangelo: «Mio Signore e mio Dio».
Le apparizioni pasquali, ricordate dagli altri Vangeli e da san Paolo, sono importanti per la fede, ma non assolute. Potremmo dire che sono dei “segni”, ma dal valore “relativo”, almeno per il quarto evangelista. Un po’ come i miracoli. Fondamentale invece, per accedere a Gesù vivente e fondare la nostra fede, la sua parola (in definitiva tutto il Vangelo). Parola resa viva per noi dallo Spirito, che continuamente ce ne fa memoria.
E nella liturgia, dove è «Cristo che parla» quando «nella Chiesa si legge la Scrittura» (Sacrosanctum Concilium). Per noi, uomini e donne del tempo post-moderno che cerchiamo la “presenza” di Gesù al modo di Tommaso, l’augurio è di poterne fare ancora esperienza, nella Chiesa e con la Chiesa, tramite il dono della parola di Cristo che ancora a noi si offre e diventa viva grazie allo Spirito.



