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La separazione delle carriere dei magistrati (Pm che fanno indagini e giudici che emettono sentenze) è un punto, controverso, che ritorna ciclicamente e viene a galla da decenni ogni volta che si parla di riforme della giustizia. E che in questo momento è parte integrante di una riforma più ampia che tocca l'ordinamento giudiziario e gli equilibri tra poteri dello Stato. Cerchiamo di capire che cosa è e se davvero converrebbe a noi comuni cittadini.
CHE COSA SI INTENDE PER SEPARAZIONE DELLE CARRIERE
In Italia magistrati requirenti (Pubblici ministeri, quelli che fanno le indagini) e magistrati giudicanti (giudici di Tribunale e Corti) appartengono alla stessa carriera, nel senso che sono selezionati da un unico concorso e dei loro trasferimenti e dei loro procedimenti disciplinari si occupa il Consiglio superiore della magistratura. La Costituzione stabilisce che la magistratura è autonoma e indipendente ed è soggetta soltanto alla legge. E i magistrati si distinguono tra loro soltanto per funzioni. Chi chiede la separazione delle carriere vorrebbe (sulla carta) imporre all’inizio della carriera una scelta radicale e definitiva tra una funzione e l’altra, un programma tra le altre cose presente nel disegno sovversivo del piano di Rinascita di Licio Gelli.
DA PM A GIUDICE E VICEVERSA, QUANTE VOLTE ACCADE NELLA REALTÀ
Nel corso del tempo le funzioni sono state sempre più rigidamente separate, a partire dalla riforma Castelli del 2006, che ha reso il passaggio dal ruolo di Pm a quello di giudice e viceversa parecchio scomodo e quindi poco ambìto, tanto da renderlo marginale: tra il 2011 e il 2016, per dire, il passaggio ha riguardato rispettivamente lo 0,21% dei requirenti e lo 0,83 dei giudicanti, laddove nella seconda metà degli anni Novanta erano nell’ordine rispettivamente del 6/8,5% e del 10/17% (dati ufficio statistico Csm). Se ne evince che con la riforma dell’ordinamento il problema è divenuto numericamente sempre meno significativo. Sono numeri destinati a ridursi ancora da quando la riforma Cartabia (2022) ha ridotto la possibilità del passaggio da quattro a una sola volta in carriera, nei primi dieci anni. Anche perché già da prima servivano cinque anni di permanenza nel ruolo e un concorso di idoneità ogni volta, ma soprattutto perché si tratta di cambiare distretto e anche Regione e a volte nemmeno basta, perché è precluso anche l'ufficio competente per legge a occuparsi di indagini che coinvolgono magistrati del distretto di provenienza (quindi un Pm di Torino non può fare il giudice - e viceversa - nel distretto di Milano, uno di Roma nel distretto di Perugia e così seguitando). Per cambiare funzione bisogna andare più lontano: vuol dire cambiare città, terremotare vite e infatti lo si chiede sempre più di rado. A meno che non si cambi proprio mestiere passando dal civile al penale e viceversa, il che è improbabile e molto raro.
PERCHÉ SE NE PARLA SPESSO
Chi chiede carriere separate sostiene che la modalità attuale renderebbe meno paritarie le parti del processo (Pm e avvocato) davanti al giudice. Ma in Italia il Pm non è un avvocato dell’accusa, non ha il dovere di portare a casa la condanna (come invece l’avvocato ha il dovere di fare il possibile per ottenere la sentenza più favorevole al suo cliente), ma ha l’obbligo di indagare per la verità, cioè cercando anche le prove a favore dell’indagato, se ce ne sono che lo scagionano, tanto che se si convince che l’indagato sia innocente deve chiedere l’archiviazione in Udienza preliminare e, pure, se al termine del dibattimento (la parte pubblica del processo ndr.) si convince che la prova che si è formata davanti al giudice non confermi l’ipotesi della pubblica accusa, anche se il suo compito è stato di sostenerla in udienza, deve chiedere l’assoluzione dell’imputato.
Tutto questo a maggiore garanzia dell’imputato di come sarebbe se il Pm fosse un avvocato dell’accusa, parte tout court e non parte imparziale come è ora. Sotto la richiesta delle carriere separate in realtà si nasconde il sospetto che l’appartenere alla stessa carriera determini un giudice meglio disposto verso Pm che verso l’avvocato difensore. Ma le statistiche (fonte inaugurazione dell’anno giudiziario 2021 in Cassazione) smentiscono questo pregiudizio, se è vero che in primo grado le assoluzioni sono il 50%. Il problema in questo caso potrebbe venire dal fatto che una parte di questi dibattimenti che finiscono in assoluzioni potrebbe essere evitata se fosse più robusto il filtro in udienza preliminare: è questo un tema già affrontato nel 2022 dalla riforma Cartabia che ha rafforzato il filtro del Gip. Ma questo non ha nulla a che fare con la separazione delle carriere. Chi non condivide l’idea della separazione nota tra l’altro che curiosamente nessuno di quelli che temono giudici appiattiti sul Pm ha mai chiesto, invece, di separare le carriere di giudici di primo e di secondo grado e gli stessi dalla Cassazione. Eppure anche loro giudicano sull’operato di altri giudici con cui condividono Csm, concorso e cultura.
CARRIERA COMUNE O SEPARATA, CHE COSA GARANTISCE DI PIÙ IL CITTADINO
Chi sostiene l’importanza di mantenere come da Costituzione le carriere, il concorso e la formazione unite, lo fa in nome dell’importanza di mantenere una comune cultura della giurisdizione tra giudice e Pm. Cerchiamo di capire che cosa significa: se un Pm ha in comune il metodo di ragionamento con il giudice, sa ragionare come lui, ne condivide la formazione, si rischia meno che diventi un super poliziotto, sarà più affidabile nel verificare la saldezza della propria ipotesi di accusa prima di portarla al vaglio del giudice. Perché poi è anche da questo che si giudica un Pm: come diceva Falcone, andare a dibattimento contro i mafiosi con prove che non reggono è un regalo che si fa alla mafia, quindi meglio saper fare un passo indietro prima, al momento di verificare la saldezza delle prove e la tenuta del rispetto delle regole formali.
Non per caso, proprio per quella cultura comune tra Pm e giudice, come vediamo anche nei telefilm e nei legal thriller costruiti sul modello italiano, il Pm è quello che “rompe le scatole” sulle regole al Montalbano di turno, impedendogli fughe in avanti quando il commissario è tentato di andare per le spicce alla sostanza. Anche perché la polizia giudiziaria dipende funzionalmente dal Pm che è tenuto a sorvegliare sul rispetto delle norme. Nella realtà questo aspetto, che unisce il Pm alla cultura del giudice più che a quella del poliziotto, garantisce meglio chi si trova sotto accusa, specie se non è di quelli che possono pagarsi difensori principi del foro.
Proprio per questo una corrente di pensiero trasversale ad avvocatura, magistratura e ambito accademico porta alcuni a sostenere che per meglio garantire il cittadino sarebbe utile al contrario prevedere che chi si appresta a fare il Pm cominci per qualche tempo come giudice in un collegio, anche se questo contrasta con la carenza di magistrati, tanto che per coprire i buchi si sono a volte, in emergenza, al contrario accorciati i tirocini, rimedio utile nell'immediato, ma alla lunga poco lungimirante.
UN TEMA TECNICO CHE NE NASCONDE UNO POLITICO
Spesso accade che il dibattito sui temi della giustizia, come affermava Giovanni Maria Flick nell’intervista pubblicata sul numero 21/2021 di Famiglia Cristiana, sulla carta molto tecnici nascondano in realtà divergenze tutte politiche. Il tema della separazione delle carriere, da trent’anni lacerante, è uno di questi: il tema è tecnico, è delicato valutare le conseguenze della riforma, non è qualcosa di cui il comune cittadino possa facilmente afferrare le ricadute al di fuori degli slogan. Ma sono in molti a ritenere che dietro il tema tecnico, ormai statisticamente marginale, di permettere o non permettere a Pm e giudici di passare da una funzione all’altra e quanto, si nasconda in realtà l’intento politico di cominciare da qui per assoggettare progressivamente l’ufficio del Pm all’esecutivo, col risultato che a quel punto sarebbero i Governi a decidere di volta in volta (a seconda del colore e del consenso) quali cassetti un Pm può aprire e quali no.
Ma in questo caso il rischio è che un cittadino, uguale agli altri davanti alla legge secondo l’articolo 3 della Costituzione, possa diventare un po’ meno uguale e che il divario tra potenti e comuni cittadini si stringa o si allarghi, a seconda che il Governo di turno decida che i cassetti del potere possano essere aperti o debbano restare chiusi.
CHE COSA DICE L'ESPERIENZA PASSATA E PRESENTE
La storia e anche il presente (in Polonia, in Ungheria, in Turchia) insegnano che meno è indipendente la giurisdizione, più è attratta sotto l’egida dei Governo, meno garanzie si danno al cittadino nelle maglie della giustizia. Anche per questo il Consiglio d’Europa non per caso almeno dal 2000 – vedi Rec. (2000) 19 ¬– nei documenti in cui si ragiona di armonizzazione dei sistemi giudiziari europei, suggerisce di favorire cultura comune tra giudici e Pm e di non impedire il passaggio tra le funzioni e indica la indipendenza del Pubblico ministero come il modello cui tendere per l’Ue.
DALLA RIFORMA CARTABIA ALLA RIFORMA NORDIO
Con la riforma Cartabia, giunta a destinazione dopo una complicata mediazione politica tra posizioni molto distanti nel governo di larghe intese con a capo Mario Draghi, i passaggi di funzioni sono stati ridotti nel corso del 2022 da 4 a 1, cosa che dovrebbe nei fatti ridurre ai minimi le effettive richieste di transizione da una funzione all'altra. Nel 2022 le richieste di passaggio di funzione sono state 25, nel 2023 34 forse lievemente accresciute dal fatto che se passasse la riforma non sarebbe più possibile cambiare (dato Csm, allegato al parere sulla riforma del gennaio 2024) su un organico di quasi 10.000 magistrati, con le nuove regole in vigore questi numeri marginali sono destinati a ridursi ancora perché la legge prevede che il passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti e viceversa (art. 12) possa avvenire soltanto una volta nel corso della carriera entro 10 anni dalla prima assegnazione delle funzioni. Trascorso tale periodo, è ancora consentito, per una sola volta, il passaggio dalle funzioni giudicanti alle funzioni requirenti, purché l'interessato non abbia mai svolto funzioni giudicanti penali; il passaggio dalle funzioni requirenti alle funzioni giudicanti civili o del lavoro, in un ufficio giudiziario diviso in sezioni, purché il magistrato non si trovi, neanche in qualità di sostituto, a svolgere funzioni giudicanti penali o miste. Nella pratica il secondo passaggio implica che si cambi lavoro, cioè si finisca ad agire su un diverso rito procedurale, passando dal penale al civile o al diritto del lavoro. Una cosa difficilissima e assai improbabile perché implica la fatica improba di acquisire gli automatismi di un rito processuale diversissimo.
Al momento i numeri fanno pensare che i rari casi di richiesta di cambio di funzioni riguardino casi quasi estremi: o chi ha accettato, non avendo più altri posti disponibili, una prima nomina molto lontana dalla propria residenza e voglia riavvicinarsi o chi si trovi per contingenze che si modificano nel corso della vita in una situazione di incompatibilità "ambientale". (Es. Un figlio diventato avvocato nello stesso foro..., l'aver sposato nel mentre un collega con funzioni incompatibili o un avvocato della stessa città...e magari per non finire in una sede troppo lontana ci si adatta a cambiare funzione per averne una più comoda).
Neppure questo, che è una separazione delle funzioni nei fatti, però è bastato a togliere la questione dal dibattito, cosa che dimostra che il tema è nella realtà più politico che tecnico. Non per caso era oggetto di uno dei referendum indetti nel 2022 con il sostegno inedito di Lega e Radicali, che non hanno raggiunto il quorum. Non per caso è tuttora uno dei cavalli di battaglia del ministro della Giustizia del Governo Meloni Carlo Nordio (che però non l'ha sempre pensata come ora su questo tema, almeno a giudicare dalla sua firma presente in calce a un appello del 1994, quando ancora era Pm, proprio contro la separazione) e torna d'attualità con più forza ogni volta che sale la tensione tra potere esecutivo e potere giudiziario.
LA RIFORMA MELONI, NON SOLO SEPARAZIONE MA MODIFICHE ALL'ORDINAMENTO
La bozza di disegno di Legge targato Governo Meloni in tema di separazione delle carriere, ma sarebbe più corretto parlare di Ordinamento giudiziario perché le modifiche vanno oltre la separazione, entra ufficialmente in Consiglio dei Ministri il 29 maggio 2024, citato all'ordine del giorno con queste parole: «Schema di disegno di legge costituzionale: Norme in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione della Corte disciplinare». La tempistica, molto vicina a una tornata elettorale, finisce per evidenziare la valenza politica della questione. La calendarizzazione è solo l'inizio del complesso iter previsto per le norme che modificano la Costituzione.
Facile prevedere che il tema, non di poco momento per le sue implicazioni, farà discutere a lungo. Anche la citazione all'ordine del giorno dell'istituzione di una Corte disciplinare, che si vorrebbe a sostituire la sezione disciplinare del Csm che attualmente si occupa dei procedimenti disciplinari dei magistrati, è destinata a tenere banco nel dibattito. Non nuova come idea, già ventilata in passato anche in punti diversi dell'arco parlamentare, pone infatti il complesso problema di come disegnarla in modo da garantire l'autonomia e l'indipendenza della Corte, perché a cascata, data la delicatezza del potere decisionale in ambito disciplinare, potrebbe ripercuotersi indirettamente sull'indipendenza e l'autonomia della magistratura previste dalla Costituzione. Il Ddl approvato in Commissione Affari costituzionali alla Camera il 3 dicembre 2024, approdato "blindato" in aula a Montecitorio l'8 gennaio 2024, ne è uscito con l'approvazione alla prima lettura il 16 gennaio, non senza polemiche per la cosiddetta blindatura del testo, senza cioè possibilità di apportare modifiche tramite emendamenti. Trattandosi di riforma costituzionale richiede una doppia lettura in entrambe le Camere e, in mancanza di maggioranza dei due terzi, un referendum confermativo.
LA FORMA E LA SOSTANZA
Il Governo Meloni nel sostenere la separazione asserisce di non avere alcuna intenzione di ridurre l'indipendenza del Pm, formalmente è possibile che questo sia vero come primo passaggio, ma la preoccupazione principale viene dal fatto che l'approvazione della riforma porterebbe a un ufficio di Pm separato, e come tale troppo forte e troppo vicino alla Polizia e dunque meno garantista, e che una qualche forma di assoggettamento all'esecutivo, in conseguenza dell'effetto della modifica della separazione, possa avvenire in un secondo momento a breve scadenza o da parte di un Governo successivo.
Un adagio, citato spesso dai costituzionalisti, vuole che "le Costituzioni siano le regole che i popoli si danno da sobri, perché valgano anche nel caso in cui si cada in preda ai fumi dell'alcol", il suo significato sta a indicare che per precauzione sarebbe il caso usare la massima cautela nel modificare le Carte costituzionali, nei punti che impattano su principi democratici (l'indipendenza della magistratura è uno di questi), perché i Governi passano, mentre le Costituzioni restano e nessun governo, quand'anche possa garantire sulla propria sobrietà - fuor di metafora sulle proprie inappuntabili intenzioni -, potrà prendere impegni contro l'ebbrezza dei governi successivi e per conto di chi verrà dopo.
A questo proposito ha fatto discutere il fatto che un emendamento che chiedeva di introdurre una garanzia su questo aspetto, e di mettere nero su bianco di «astenersi da qualsiasi iniziativa, legislativa e non, volta a indebolire o compromettere il principio della dipendenza funzionale della polizia giudiziaria dal pubblico ministero e il divieto di interferenza degli altri poteri nella conduzione delle indagini», proposto dall'opposizione (in questo caso M5s), sia stato respinto in prima lettura come anche tutti gli altri emendamenti nel corso dell'approvazione, compresi quelli suggeriti da esperti del diritto favorevoli alla riforma (vedi polemiche sul testo "blindato").
CHE COSA PREVEDE IL DDL COSTITUZIONALE
1. La separazione delle carriere di pm e giudici, si tratta di capire se da selezionarsi con due diversi concorsi, senza più possibilità di passare da una funzione all’altra nel corso dell’attività lavorativa, decidendo che cosa fare da grandi prima di cimentarsi nel concorso e non come è stato fin qui dopo i 18 mesi di tirocinio in cui il neomagistrato sperimenta diverse esperienze giudicanti, requirenti, civili e penali sperimentando sul campo le proprie attitudini, prima di scegliere. Anche se storie personali di magistrati in carne e ossa invece dimostrano che il più delle volte proprio l'esperienza diretta in quella fase porta a meglio comprendere le proprie inclinazioni e, se occorre, a cambiare l'idea astratta iniziale.
2. Il Consiglio superiore della magistratura (Csm), l’organo di autogoverno previsto unico dalla Costituzione e fin qui composto per 2/3 di magistrati (“togati”) eletti dalla magistratura e per 1/3 di giuristi eletti dal Parlamento in seduta comune (“laici”), con la riforma si sdoppia, mantenendo le proporzioni: un Csm per i Pm, uno per i giudici, in cui entrano di diritto rispettivamente il procuratore generale e il primo presidente della Cassazione. Entrambi presieduti dal Presidente della Repubblica, con vicepresidente “laico”, i due Csm conservano i compiti attuali (nomine, trasferimenti, valutazioni di professionalità di magistrati e pareri consultivi al Governo), ma perdono la competenza disciplinare. Cambia radicalmente il modo di entrare a farne parte: i togati saranno scelti con un sorteggio puro tra tutti i magistrati; i “laici”, con un sorteggio “temperato”, su un elenco di nomi eletti dal Parlamento. Insomma, sui togati decide il caso; sui laici la politica si riserva un margine di scelta, che potrebbe essere ampio qualora l’elenco, tutto da definire, su cui estrarre, poi, a sorte fosse ristretto. Insomma, due pesi e due misure che la legge ordinaria di attuazione potrebbe ulteriormente sbilanciare.
3. La riforma affida i processi disciplinari per i magistrati a una, tutta nuova, Alta Corte di disciplina, composta da 15 giudici: tre nominati dal presidente della Repubblica; tre sorteggiati da un elenco predisposto dal Parlamento; nove estratti a sorte tra magistrati (sei giudici e tre pm) con esperienza in Cassazione. L’Alta corte, in controtendenza, vede insieme Pm e Giudici. Le sentenze che pronuncerà potranno essere impugnate «anche per motivi di merito» solo davanti alla stessa Alta corte, in differente composizione: una formulazione che sembrerebbe escludere il ricorso in Cassazione per motivi di legittimità.
Chi sostiene l'utilità della Corte lo fa anche per evitare che la giustizia disciplinare della magistratura sia troppo "domestica", troppo interna, ma questo aspetto, nel caso della magistratura già temperato dal fatto che nel Csm ci sono i "laici" di nomina politica, risponde all'esigenza che le valutazioni disciplinari avvengano da parte di un organo che conosca a fondo dinamiche, regole e prassi delle professioni. Non per caso sono sempre interne le sezioni disciplinari che giudicano le violazioni deontologiche negli ordini professionali: avvocati, giornalisti, commercialisti, medici... ecc. accade per non rischiare che chi giudica abbia una nozione astratta di come funziona il lavoro.
Sorteggio, per i rischi di delegittimazione che comporta, e sdoppiamento del Csm (per i costi e per i problemi di coordinamento che potrebbero derivare se i due Consigli entrambi presieduti dal Presidente della Repubblica dovessero dare pareri consultivi contrastanti in materie che esigerebbero un coordinamento tra le due funzioni) sono tra i punti più criticati nel dibattito, anche perché non sono stati accolti neppure i correttivi proposti da giuristi favorevoli alla separazione, ma preoccupati di alcuni difetti tecnici.
Il Csm ha dato alla riforma parere contrario.
NESSUNA CORREZIONE IN PARLAMENTO
Nel dibattito al Senato sulla "separazione delle carriere" approvata in prima lettura alla Camera il 16 gennaio 2025 e in Senato il 22 luglio, (poi terza lettura passata alla Camera il 18 settembre, ha fatto discutere il "canguro", uno strumento per "tagliare" gli emendamenti e far procedere l'approvazione più spedita. Ma che cos'è esattamente il "canguro" e perché si teme sia un problema in una riforma costituzionale per cui chi la sostiene vuole un testo "blindato" ossia non emendabile?
«Il cosiddetto "canguro"», ha spiegato il costituzionalista Roberto Bin, interpellato da Fc, «è uno strumento normale di prassi per contrastare l’ostruzionismo parlamentare, ma una cosa sono le leggi ordinarie una cosa è una riforma costituzionale (il caso della Separazione delle carriere, ndr.): dato che sono strumenti con cui la maggioranza riesce a togliere spazi alle minoranze, possono diventare un problema se diventano tecniche anti dibattito, di marginalizzazione del Parlamento. In questi casi se la minoranza subisse un serio vulnus la possibile reazione potrebbe essere la sollevazione del conflitto di attribuzione davanti alla Corte Costituzionale».
Nella terza lettura alla Camera, passata con 88 voti, il 18 settembre, ha fatto discutere altrettanto, anzi di più, si è finiti in rissa, e per le medesime ragioni invece in la cosiddetta "seduta fiume", una seduta lunghissima, ritenuta dall'opposizione una forzatura, servita a garantire un'approvazione rapida. Tutto a questo a seguito di prima e seconda lettura in cui non sono stati apposti emendamenti, nonostante siano stati molti tra commissione e dibattito parlamentare i punti emersi come meritevoli di correzione anche nei suggerimenti di giuristi favorevoli alla riforma, invece si è proceduto optando per un testo "blindato", laddove nel prevedere un iter complesso per le riforme costituzionali i costituenti avevano probabilmente immaginato che di lì passassero leggi, non imposte a colpi di numeri dalla maggioranza ma il più possibile ponderate, discusse, mediate, meditate e condivise. Mentre la terza lettura ha reso plastica l'immagine di una netta frattura.
L'APPELLO DELL'IAJ AI SENATORI ITALIANI
A poche settimane dall'ultima votazione in Senato, prevista per il 28 ottobre, l’Associazione internazionale dei magistrati (IAJ) il 15 ottobre 2025 a Baku, nel corso della propria assemblea annuale ha votato una risoluzione che contiene un appello rivolto direttamente ai senatori italiani,in cui si esprime preoccupazione per la riforma in corso di votazione in Italia: «Un’analisi del quadro costituzionale e giuridico esistente – si legge nel documento – confrontato con le modifiche previste, mostra chiaramente che tali cambiamenti altererebbero negativamente l’equilibrio dei poteri tra lo Stato e la magistratura, indebolendo così la tutela del cittadino garantita da procedure e decisioni giudiziarie indipendenti e imparziali. Smantellare elementi fondamentali di un sistema che tutela lo Stato di diritto e il popolo italiano dall’abuso di potere rappresenta un passo indietro. È evidente che le riforme proposte mirano a indebolire la posizione della magistratura e ad aprire la porta a possibili influenze esterne».
VIA LIBERA DEFINITIVO, VERSO IL REFERENDUM
La riforma che introduce la separazione delle carriere della magistratura e modifica l'ordinamento giudiziario è stata approvata definitivamente dall'aula del Senato il 30 ottobre 2025. Il disegno di legge costituzionale ha avuto 112 voti favorevoli, 59 contrari e 9 astensioni. Il voto è il quarto e ultimo passaggio parlamentare, come previsto dalla Costituzione. Non essendoci stata la maggioranza dei 2/3 è pressoché certo che i cittadini saranno chiamati in primavera a esprimersi in un referendum senza quorum con un sì o con un no alla riforma.




