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Dov’è la fine di questa deriva? Dov’è il fondo del barile in cui si sta suicidando un tifo che per insultare un avversario sul campo scomoda le tragedie della storia e offende la memoria della bambina simbolo mondiale della Shoah e con essa la memoria dei sei milioni di morti uccisi dai nazisti?
Quand’è che i calciatori si decideranno ad alzare la testa oltreché la cresta per dire, una volta per tutte, davanti a questo scandalo che urta l’umanità e le coscienze: “Non in mio nome”.
È evidente che non basta più l’indignazione scontata del ministro dello sport. Non basta più la presa di distanza formale della società Lazio che stigmatizza il comportamento di “pochi sconsiderati”. Non basta più l’annuncio dell’inchiesta da parte della Procura federale che promette sanzioni ai colpevoli. Né bastano i Daspo e le curve chiuse con sigilli neanche troppo abilmente aggirati. Serve qualcosa di più forte e di più spontaneo delle parole di circostanza, serve l’indignazione autentica degli uomini del calcio che dimostrino di saper prendere l’iniziativa a costo di rischiare qualcosa della propria immagine patinata in cambio di un sussulto di rabbia, di orgoglio e di responsabilità.
Serve che i calciatori, gli allenatori, i dirigenti e gli sponsor con loro trovino compatti il coraggio di inventarsi qualcosa di simbolicamente potente per dire forte e chiaro che un tifo siffatto li offende come persone ancor prima che come calciatori, che non ne vogliono più sapere. Non solo perché diversamente non se ne esce e la deriva non si ferma più. Ma perché ne va della dignità delle persone che vivono del calcio e nel calcio.



