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Ognuno ha la sua bussola. Il Nord di Paolo Castelli è la curiosità, la passione per gli angoli bui della storia. «Conoscere le marginalità ti permette di entrare a contatto con le parti più nascoste di te stesso». Romano, 28 anni, laurea in Storia delle religioni (con tesi sulla Bosnia nel ’500), poi magistrale in Storia contemporanea e comunicazione, due anni fa Paolo è stato un “casco bianco” della Caritas italiana. Ha cioè fatto un anno di servizio civile all’estero. «Sono un pacifista convinto. Questa scelta è un sevizio contrapposto allo sforzo bellico».
nelle aree di crisi
Paolo ha fatto volontariato in Kosovo, campi di lavoro in Puglia, sulla frontiera di Ventimiglia. «La mia passione sono i Balcani e le rotte delle migrazioni». Nel 2021 vince uno dei quattro posti banditi da Caritas italiana e parte per Sarajevo. «Avevamo due servizi da gestire: il Centro Giovanni Paolo II, per giovani e ragazzi, per favorire il dialogo interreligioso e interetnico; e poi il campo profughi per famiglie alla periferia della città». In un container si offriva un tè caldo e soprattutto una possibilità di incontro a uomini e donne provenienti da ogni latitudine, che portano i segni della violenza. «C’è chi arriva e chi ritorna: tutti hanno come obiettivo il superamento della frontiera, provano il cosiddetto game, e se lo portano addosso. Non è stato facile, avevamo anche noi dei consulenti che ci supportavano».
esperienza che fa crescere
Un’esperienza unica: «In quell’anno credo di aver fatto il salto per diventare adulto». La fine del servizio coincide con il trentesimo anniversario dell’assedio di Sarajevo e lo scoppio della guerra in Ucraina. «Vivere lì in quel momento mi ha scosso moltissimo: una tragedia che si ripeteva. E per me era importante provare a capire di più». Per questo, finito il servizio, Paolo accetta la proposta Caritas di tornare in Italia per il coordinamento dell’accoglienza dei profughi Ucraini a Roma. Oggi lavora come tutor di una trentina di persone assegnate ai centri di accoglienza Caritas: documenti, inserimento scolastico o lavorativo, burocrazia ma anche conoscenza della città, visite culturali. «Il tempo da vivere è il presente, al di là di quello che succederà. L’obiettivo è accompagnarli in un percorso che li faccia sentire cittadini italiani. Per me è anche un modo per approfondire la guerra dal punto di vista delle persone che la subiscono».
nelle aree di crisi
Paolo ha fatto volontariato in Kosovo, campi di lavoro in Puglia, sulla frontiera di Ventimiglia. «La mia passione sono i Balcani e le rotte delle migrazioni». Nel 2021 vince uno dei quattro posti banditi da Caritas italiana e parte per Sarajevo. «Avevamo due servizi da gestire: il Centro Giovanni Paolo II, per giovani e ragazzi, per favorire il dialogo interreligioso e interetnico; e poi il campo profughi per famiglie alla periferia della città». In un container si offriva un tè caldo e soprattutto una possibilità di incontro a uomini e donne provenienti da ogni latitudine, che portano i segni della violenza. «C’è chi arriva e chi ritorna: tutti hanno come obiettivo il superamento della frontiera, provano il cosiddetto game, e se lo portano addosso. Non è stato facile, avevamo anche noi dei consulenti che ci supportavano».
esperienza che fa crescere
Un’esperienza unica: «In quell’anno credo di aver fatto il salto per diventare adulto». La fine del servizio coincide con il trentesimo anniversario dell’assedio di Sarajevo e lo scoppio della guerra in Ucraina. «Vivere lì in quel momento mi ha scosso moltissimo: una tragedia che si ripeteva. E per me era importante provare a capire di più». Per questo, finito il servizio, Paolo accetta la proposta Caritas di tornare in Italia per il coordinamento dell’accoglienza dei profughi Ucraini a Roma. Oggi lavora come tutor di una trentina di persone assegnate ai centri di accoglienza Caritas: documenti, inserimento scolastico o lavorativo, burocrazia ma anche conoscenza della città, visite culturali. «Il tempo da vivere è il presente, al di là di quello che succederà. L’obiettivo è accompagnarli in un percorso che li faccia sentire cittadini italiani. Per me è anche un modo per approfondire la guerra dal punto di vista delle persone che la subiscono».



