Nella Bibbia c’è una creatura che prevale su tutte le altre: l’uomo e la donna, immagine vivente di Dio stesso, da lui dotata della dignità di sovranità delegata sul Creato
Chi ci segue in modo costante sa che, nell’ecologia biblica che stiamo delineando, abbiamo riservato ultimamente uno spazio ampio agli animali. È ora necessario rivolgere la nostra attenzione a quella creatura particolare a cui la Bibbia riserva una posizione di primato, l’uomo e la donna. Non per nulla nella pagina iniziale della Genesi ove è di scena la creazione, l’umanità è creata per ultima quasi ne fosse il vertice, ed è definita non come un’opera «buona/bella» (in ebraico tôb), come le altre creature, bensì una realtà «molto buona/bella» (1,31).
Certo, anche la creatura umana ha un legame con la materia, come si legge successivamente nella seconda pagina biblica della creazione: «Il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita» (Genesi 2,7). C’è dunque una sorta di fraternità dell’umanità con la terra, espressa nel nome assegnato all’uomo, ha-’adam, che in ebraico rimanda proprio alla «terra», ’adamah, letteralmente «dal colore ocra, rossastro» come l’argilla. È per questo che alla morte l’uomo «ritorna alla polvere della terra e il soffio vitale ritorna a Dio che lo ha dato» (Qohelet 12,7), «poiché dalla terra sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere tornerai» (Genesi 3,19).
Tuttavia l’umanità ha una qualità specifica che la rende superiore e non riducibile alla pura materialità. Essa è definita in questa frase netta: «Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò» (1,27). L’«immagine», come è evidente, non è tanto l’anima come si penserà nella teologia posteriore, bensì la bipolarità sessuale («maschio e femmina»), cioè la capacità di amare e generare. È per questo che nel libro della Genesi dominano le genealogie che rappresentano l’analogia umana con il Creatore attraverso la generazione, capace di far progredire la storia della salvezza.
Israele, perciò, non ha bisogno di una statua divina: l’immagine vivente è l’umanità, che è uomo e donna (e non solo il maschio, come sosterrà una successiva concezione religiosa). Ma nell’essere «immagine e somiglianza» c’è un’ulteriore dimensione che è così formulata: «L’uomo domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutti gli animali selvatici e su tutti i rettili che strisciano sulla terra… Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela, dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra» (1,26.28).
La creatura umana riceve, dunque, da Dio una dignità di sovranità delegata sul Creato, quasi da viceré. Tuttavia i due verbi che abbiamo messo in corsivo e che specificano questa funzione, nel loro valore di base, non sono così brutali come appaiono a prima vista. Contengono infatti un significato più sfumato e fin suggestivo: kabash, «soggiogare», originariamente rimanda all’insediamento in un territorio che deve essere esplorato e conquistato, mentre radah, «dominare», è il verbo del pastore che guida il gregge. Certo è che l’umanità si è spesso comportata in maniera ben diversa nei confronti sia degli animali sia del Creato!