Il campo profughi palestinese da tre anni investito dalla guerra.
Capire ciò che accade in Siria
è difficile. Ma capire ciò che
accade a Yarmouk, il grande
campo profughi palestinese
a Sud di Damasco che ospita
circa 20 mila persone, è quasi
impossibile. Le lotte tra le fazioni
locali e la guerra civile siriana hanno
prodotto un calderone violento in
cui i miliziani dell’Isis e di Al Nusra
(dove sono confluiti i palestinesi delle
tendenze più estreme), che ormai
controllano la maggior parte di Yarmouk,
si scontrano con i gruppi fedeli
a Hamas e con l’esercito siriano.
Tutti
hanno visto i palazzi distrutti dalle
bombe, le file per il pane, i bambini disperati
tra le macerie.
Molto facile, invece, è capire che
cos’è successo a Bashir Halteh, a sua
moglie Mey, alle tre figlie dai bellissimi
nomi, Nur (Luce), Farah (Gioia)
e Ibah (Dono), cioè all’unica famiglia cristiana della cittadella palestinese
di Yarmouk. «Abbiamo perso tutto»
racconta Bashir, «abbiamo salvato a
stento la vita. Stavamo bene, anzi, a esser
sincero ero piuttosto ricco.
Avevo
una piccola fabbrica di dolciumi, tre
negozi per la vendita di frutta e succhi
di frutta e un’agenzia immobiliare.
Poi, per mio fratello che ha problemi
di salute, avevo aperto da poco anche
un negozio di scarpe. Nei magazzini
avevo un sacco di merci. Poi, nel 2012, sono arrivati
quelli di Al Nusra e noi sapevamo che,
come unica famiglia cristiana, era vamo un bersaglio. Siamo scappati
di notte, portando con noi solo ciò
che riuscivamo a mettere in valigia. Il
giorno dopo i jihadisti sono entrati in
casa nostra, hanno rubato tutto e sui
muri hanno scritto che sono ricercato
e che sarò sgozzato. Danno per
scontato che io, essendo benestante e
cristiano, sia un sostenitore di Assad».
Yarmouk, come tutti i campi profughi
“storici”, non è un campo ma una
vera città. Il padre di Bashir, originario
di Haifa e sposato con una ragazza palestinese
di Giaffa (nell’odierno Israele),
vi arrivò invece quando c’erano
solo tende, nel 1948, dopo la fondazione
dello Stato ebraico. Bashir è nato
qui ma, come “profugo palestinese”,
ha da tutta la vita una carta d’identità
siriana provvisoria. Di fatto, lui e le figlie
non possono uscire dalla Siria.
Solo Mey, la moglie, avendo passaporto
della Giordania, può muoversi.
O meglio: potrebbe. Perché hanno perso tutto, sono ospitati dalle suore
francescane del Cuore Immacolato di
Maria presso il santuario dedicato
alla Conversione di san Paolo e quel
poco che guadagna Bashir lo deve al lavoro
di autista che gli hanno trovato i
frati della Custodia di Terra Santa.
«Nulla è più nostro», dice Mey,
«nemmeno il tempo. Siamo in balia di
eventi che sconvolgono le nostre esistenze.
Io sono sempre tesa, infelice.
Bashir viaggia qua e là, le strade non
sono sicure, sono in ansia per lui. Nur
è all’università, vive al collegio, la vedo
di rado. Farah e Ibah vanno in una
scuola colpita più volte dai razzi dei
jihadisti. Ed è la seconda scuola, perché
anche la prima era stata distrutta
dalle bombe. Viviamo della benevolenza
altrui e per noi non c’è futuro».
Farah, la figlia di mezzo, sta finendo
il liceo, poi vuole diventare ingegnere.
Stessi studi della sorella maggiore.
Ma su una cosa Farah ha le idee
chiarissime: «Non resterò in Siria,
voglio andarmene da qui. Non posso
immaginare di vivere a lungo in questa
situazione. Mio padre è bravissimo,
fa di tutto per non farci mancare
nulla. Ci paga le lezioni di musica, lo
sport… Ma nemmeno lui può restituirci
la cosa più importante: la dignità,
l’autonomia, la libertà. Abbiamo tante
amiche, a scuola e altrove. Ma nessuna
di loro sa che viviamo tutti in una
stanza, e solo grazie alle suore che aiutano
tante persone come noi. Non lo
diciamo a nessuno, non riusciremmo
a spiegare fino in fondo che cosa vuol
dire sentirsi… niente. Persone che non
contano, sbattute qua e là. Che vita è
quella in cui non puoi nemmeno esser
sincera con le amiche?»