Il cosiddetto “discorso della montagna” occupa i capitoli 5, 6 e 7 del Vangelo di Matteo. È il primo dei cinque discorsi che scandiscono lo scritto matteano, collocato subito dopo l’avvio del ministero pubblico di Gesù. Dopo aver informato i suoi lettori che «Gesù percorreva tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe, annunciando il vangelo del Regno…» (Matteo 4,23), l’evangelista li conduce su un monte insieme ai discepoli e alla folla per ascoltare l’insegnamento del Maestro, che avvia un lungo e articolato discorso il cui contenuto è proprio quel «vangelo del Regno».
Aperto dalle Beatitudini, con il Padre nostro al centro e una parabola di giudizio – la casa sulla roccia – quale conclusione, il “discorso della montagna” si sviluppa con un’indole molto diversa da tre passaggi sopra citati. Si tratta infatti di una lunga raccolta di indicazioni dal forte carattere pratico, una serie di precetti che, se non intendono sostituirsi alla Legge mosaica, hanno però l’obiettivo ambizioso di coglierne lo spirito autentico proponendosi come suo compimento. La collocazione del Padre nostro proprio al centro del discorso aiuta però a comprendere che un buon discepolo non è colui che solo esteriormente riproduce i comportamenti richiesti da Gesù, bensì colui che coltiva anzitutto un profondo e sincero legame col Padre. I frutti delle buone opere che il discorso invita a produrre sorgono da quel rapporto di fi gliolanza e, allo stesso tempo, ne sono la conferma pratica.
In estrema sintesi: il “discorso della montagna” è il ritratto, sotto forma di precetti, della vita di un discepolo del Regno che ha accolto Dio come Padre. Solo su questo sfondo si comprendono correttamente le parole che ascoltiamo nella lettura evangelica della II domenica dopo la Pentecoste, tratte dalla seconda parte del “discorso della montagna”.
Le affermazioni che Gesù fa, infatti, sono senza dubbio paradossali perché sembrerebbero suggerire una sorta di spensieratezza che sconfi na nella incoscienza e nella deresponsabilizzazione, ciò che evidentemente non può essere.
La prospettiva di comprensione è data dall’invito fi nale a cercare anzitutto il regno di Dio e la sua giustizia. Gesù sollecita a vivere ogni cosa a partire dal rapporto con il Padre che è presente dentro la realtà quotidiana – questo è «il regno di Dio» – e alla luce della sua giustizia – quella «più grande» (cfr. Matteo 5,20) – che consiste nell’amore.
Rinunciare al possesso come garanzia per la vita e non lasciarsi dominare dall’eccesso di preoccupazione per sé sono atteggiamenti comprensibili se si sceglie la via della condivisione e del sostegno vicendevole, se si costruiscono relazioni fondate sulla giustizia e si riconosce la destinazione universale dei beni del creato. È lo stile possibile di chi vive nella consapevolezza dell’autore di Siracide che ascoltiamo nella prima lettura: l’umano può sembrare un nulla e la vita di ciascuno paragonabile a un pulviscolo. Ma lo sguardo misericordioso di Dio lo fa prezioso e degno di ogni cura.