Il lungo brano del vangelo di Giovanni che ci propone la liturgia in questa “Domenica di Lazzaro” è di una ricchezza inesauribile, da cui attingiamo solo tre piste di lettura.
La prima riguarda i due versetti (43-44) che descrivono la rianimazione di Lazzaro. Rispetto all’ampiezza dell’intera narrazione sono il minimo che l’evangelista potesse scrivere, ma sono anche l’indizio per far capire al lettore che più che al “miracolo” (termine che non viene mai usato nel Quarto vangelo) o all’evento in sé, si deve guardare al significato di questo “segno”, e alle conseguenze che da esso derivano. Di queste ultime si fa presto a dire: mentre Gesù ridona la vita al suo amico, proprio da quel momento – scrive Giovanni – alcuni (Caifa, per primo) «decisero di ucciderlo» (11,53). Mentre quella luce, di cui l’evangelista scriveva nel Prologo (1,9: «veniva nel mondo la luce vera») risplende nella sua massima potenza e sconfigge la tenebra della tomba di Lazzaro, ecco che «il mondo» non la riconosce (cf. 1,10). Quanto è grande il mistero dell’iniquità! Sembra che il male e la morte debbano prevalere, eppure in questa pagina emerge con forza che la vita che viene da Dio ha l’ultima parola, la stessa che varrà anche per il Figlio, nella notte di Pasqua.
Un’altra pista di lettura riguarda una delle sorelle di Lazzaro, Marta. È caratterizzata per due volte come colei che «sa» (11,22.24), o, meglio, «crede di sapere» molte cose; invece, viene corretta dal Signore. Gesù le spiega che la risurrezione di suo fratello non avrà luogo dopo, come si aspettava lei («So che risorgerà nella risurrezione dell’ultimo giorno»), ma è un evento possibile già adesso. Per Lazzaro – e per i battezzati che in lui si possono immedesimare – la vita e la risurrezione riguardano il presente, non solo il futuro. La nostra pagina così si presta a essere letta in senso battesimale: i neobattezzati sperimentano, insieme a Lazzaro, cosa significhi una vita nuova, non più prigioniera del peccato e della paura della morte.
Infine, in questa pagina emerge uno dei temi più cari all’evangelista Giovanni, cioè quello dell’amicizia. Si trovava già all’inizio del Vangelo, col Battista chiamato «amico dello sposo» (3,29), sarà ripreso nell’ultima cena, quando Gesù dirà ai discepoli «Vi ho chiamato amici» (15,13.15), e ritornerà nella finale del libro, quando Pietro per tre volte dirà al Signore «Io sono tuo amico» (traduzione Cei: «Ti voglio bene»; 21,15-17). Ora, Gesù chiama Lazzaro «amico» (11,11), e piange per lui. Questo dettaglio è importante, perché solo un’altra volta i Vangeli registrano il pianto del Signore, quello per Gerusalemme (Luca 19,41).
In questo modo si sottolinea la profonda umanità di Gesù, che vuol bene a un amico non solo soffrendo per lui, ma – l’ha detto nell’ultima cena («Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici») – fino a dare la sua vita, come abbiamo spiegato all’inizio. Tutti noi possiamo sentirci amici del Signore, e sapere che per questa amicizia è morto per noi.