La parabola dei lavoratori dell’undicesima ora suscita immediatamente le resistenze del buon senso e della concezione di giustizia retributiva di cui tutti siamo, volenti o nolenti, impregnati. Il riferimento è a quel naturale modo di pensare che prevede una proporzionalità diretta tra una prestazione offerta e la ricompensa corrisposta: a chi fa bene il premio e a chi fa male il castigo; a chi fa di più un maggior compenso, a chi fa meno un minor riconoscimento.
Il racconto è famoso: il padrone di una vigna invia ripetutamente gruppi di braccianti durante la giornata a lavorare il suo campo. Giunto il momento di saldare i conti, decide di retribuire chi ha lavorato solo un’ora al pari di chi ha sostenuto l'intera giornata di fatica, suscitando le ovvie rimostranze di questi ultimi che gridano all’ingiustizia. La liturgia della sesta domenica dopo il Martirio del Precursore ce la fa ascoltare di nuovo, insieme a un brano di Isaia e uno della Lettera agli Efesini che, in armonia con il testo di Matteo, ripropongono il tema non facile della giustizia divina e della salvezza per grazia. Nella parabola, il comportamento del padrone non intende ovviamente mettere in discussione la questione del giusto compenso in rapporto al lavoro prestato, ma ne pone altre due di non poco rilievo: l’infallibilità o meno del criterio del merito e la precedenza della salvezza delle persone su ogni altro principio.
Se è pur vero che la valutazione del merito sulla base del risultato ha qualche importanza, è ancor più vero che si tratta di un criterio limitato, incapace di tenere presente l’in nita quantità di elementi che intervengono a determinare un risultato. Inoltre, è alleato della distinzione delle persone in categorie, dunque della discriminazione, ma soprattutto del mantenimento degli status quo, perché chi parte svantaggiato, diffcilmente si riscatterà con ottimi risultati. La parabola, pur senza cancellarlo, relativizza fortemente e indiscutibilmente tale criterio, riconoscendo il valore e la dignità di quei braccianti prima ancora che lavorino. In questo non vi è alcuna ingiustizia, tutt’altro, come peraltro il padrone fa notare. Piuttosto si allarga il concetto di giustizia, ampliandolo con una visione più vasta del semplice merito. Nella stessa direzione, viene affermata la precedenza del salvare vite su ogni altro criterio. La paga data dal padrone era quella del bracciante a giornata, suffciente giusto alla sussistenza quotidiana. Passando alle cinque del pomeriggio a chiamare gli ultimi dimostra che quel che gli interessa non è che lavorino, ma che abbiano di che mangiare. Non importa se ciò agli occhi di altri possa apparire ingiusto. La sua bontà che vuole salva la vita di tutti è la forma più grande di giustizia. Spostandosi dal piano delle immagini della parabola ne viene un ritratto di Dio meraviglioso, lo stesso che risplende anche in Isaia e in Efesini, in cui la giustizia e la grazia si sposano in una volontà di salvezza, di vita, di bene per ogni essere vivente che non conosce limite alcuno.