C’è un dato statistico curioso: il 31% del testo del Vangelo di Marco (209 versetti su 666) è occupato da narrazioni di miracoli di Gesù, una percentuale che sale al 47% se ci si ferma al solo ministero pubblico di Cristo. La presenza degli eventi miracolosi pervade, però, tutta la Bibbia come segno dell’intervento diretto divino nel creato e nella storia umana. Certo, in molti casi – si pensi, ad esempio, alla traversata di Israele del Mar Rosso (Esodo 14-15) – si ha probabilmente una visione antica secondo la quale si tende a vedere all’opera in modo diretto Dio, anche quando si tratta di cause naturali o intermedie (nel caso citato dell’esodo dall’Egitto di scena è forse il ritmo delle maree in un’area litoranea che la Bibbia chiama: «mar delle Canne»).
In altri casi c’è la tendenza a concepire la malattia come opera demoniaca e quindi a coinvolgere dimensioni ulteriori, riducendo alcuni miracoli a esorcismi. Sta di fatto, però, che – soprattutto nella storia di Gesù – il miracolo è un dato indiscutibile, riconosciuto dai suoi stessi avversari (Marco 6,22-30). I termini con cui i Vangeli definiscono questi eventi che travalicano le leggi naturali sono molteplici: essi sono térata, cioè «prodigi» che stupiscono (tale è anche il valore della parola latina miraculum, che suppone un «ammirare stupito»), dynámeis (119 volte), cioè atti della potenza divina che si svela in Cristo, ma soprattutto érga, «opere» trascendenti (169 volte ma talora in senso generale di «atto» e «fatto»), e sêméia, ossia «segni» (77 volte).
Proprio quest’ultimo vocabolo, caro a Giovanni, è significativo per indicare la vera funzione del miracolo che non vuole essere tanto un atto spettacolare, promozionale, magico, pubblicitario (spesso Gesù compie i miracoli «in disparte dalla folla», ammonendo i miracolati di non propalare la notizia), quanto piuttosto un messaggio in azione. Inoltre, l’altro termine érgon rimanda all’azione del Padre divino che «opera» nel Figlio così che si compia la salvezza che egli è venuto a portare nel mondo. Lo stesso Gesù confessa che la sua testimonianza è affidata alle «opere che il Padre mi ha dato da compiere, quelle stesse opere che io sto facendo», come la guarigione del paralitico che egli ha appena realizzato (Giovanni 5,36).
Per gli evangelisti i prodigi di Cristo sono, quindi, un segno della sua divinità oppure una descrizione del suo mistero di Signore e Salvatore; sono una rappresentazione efficace della salvezza e della redenzione; sono appunto un «segno», cioè un indice puntato verso un significato trascendente e superiore e non una mera guarigione o un atto sensazionale; sono un intervento di Dio che «opera» attraverso la parola e le mani di Cristo ed esigono, perciò, un atto di fede: «Le opere che io compio nel nome del Padre mio danno testimonianza di me. Ma voi non credete perché non fate parte delle mie pecore» (Giovanni 10,25-26).
È per questo che i Vangeli sono piuttosto sobri – rispetto ad altri racconti apocrifi folcloristici di prodigi – nel narrare «ciò che è successo», ma più attenti a indicarci «che cosa significa» il gesto di Gesù. In questa luce si vuole esaltare la dimensione intima misteriosa di quell’evento nella sua funzione di liberazione dal male, raffigurando – diremmo quasi in miniatura e in modo emblematico – l’opera generale di Cristo nella sua vittoria sul male e su Satana e la relativa irruzione del Regno di Dio.
È chiaro, perciò, che l’analisi storica può al massimo registrare un fenomeno abnorme e cercare di attestare l’autenticità storica di quel fatto; ma non potrà mai affermarne la qualità «miracolosa». Essa appartiene all’orizzonte teologico e all’esperienza della fede e non ha la finalità di costringere a credere ma di rendere efficace l’atto di adesione al Signore della natura e della storia. La meta del miracolo non è tanto l’affermazione di una religione o di un personaggio, ma la conversione personale, la fede e la liberazione dal male.