Sembra che il piccione sia un animale crudele. Quando si batte con un altro piccione si accanisce su di lui finché non muoia. E dire che gli uomini di buona volontà hanno scelto la colomba come simbolo della pace!».
È uno dei Cinquanta paradossi, un’opera dello scrittore marocchino ottantenne Tahar Ben Jelloun, francese di lingua e di adozione. Effettivamente la colomba è stata assunta a emblema della pace soprattutto sulla scia del racconto biblico del diluvio. Quando le acque si ritirarono, essa ritornò nell’arca di Noè «reggendo nel becco una tenera foglia di ulivo» (Genesi 8,11), altro simbolo della pace.
Parleremo, allora, di pace anche noi: essa collide forse col Giubileo delle Forze Armate, di Polizia, e di Sicurezza che si celebra in questo fine settimana. Tuttavia queste istituzioni dovrebbero avere come meta primaria proprio la tutela della pace, della quiete, dei valori culturali e spirituali di un popolo. Il concetto biblico di pace – in ebraico shalom, in greco eiréne – suppone non tanto la cessazione delle ostilità, ma una pienezza di vita e di serenità, tant’è vero che essa è considerata con il segno distintivo dell’era messianica.
Il profeta Zaccaria descrive così la politica del Messia: «Farà sparire i carri da guerra e la cavalleria da Gerusalemme, l’arco di guerra sarà spezzato, annuncerà la pace alle nazioni» (9,10). San Paolo, poi, definirà Cristo «nostra pace, colui che dei due popoli ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che li divideva, cioè l’inimicizia» (Efesini 2,14). I cristiani, perciò, dovrebbero essere «operatori di pace per essere chiamati figli di Dio», come dirà Gesù nelle Beatitudini (Matteo 5,9). Purtroppo, però, ha ragione anche Ben Jelloun con la sua immagine dell’apparente mitezza di una colomba che aggredisce il suo simile.
È l’ipocrisia che si cela in molte dichiarazioni dei potenti, ma anche di alcuni che hanno sulle labbra la parola “pace” e, poi, nel loro quotidiano si rilevano inesorabili se colpiti da un’offesa e incapaci di perdonare. Non si deve ridurre questo vocabolo a uno stereotipo, ma proclamarlo con coerenza e praticarlo: non per nulla Cristo parla di «operatori di pace». È necessario partire dalla famiglia, dalla scuola e dalle Chiese, cercando di amputare i sentimenti di rissa, di scontro, di aggressività anche verbale e proponendo il dialogo, l’accoglienza, l’integrazione, la solidarietà.
Nel suo libro più famoso, La forza di amare, l’apostolo della non violenza per la difesa della popolazione afroamericana, Martin Luther King, assassinato a Memphis nel 1968, ammoniva: «Noi dobbiamo usare le nostre menti per pianificare la pace in modo altrettanto rigoroso di quanto abbiamo fatto fin ora per pianificare la guerra». È, questo, un anelito universale che affidiamo in finale a due voci.
La prima è antica ed è di un pagano, il grande poeta Virgilio che nell’Eneide era lapidario: Nulla salus bello (XI, 362), cioè “Nessuna salvezza verrà mai dalla guerra”. E l’altra è del grande regista giapponese Akira Kurosawa, che mette in bocca a un personaggio del suo film Ran (1985) queste parole davvero sconsolate: «Anche gli dei sono impotenti di fronte alla follia degli uomini che cercano guerra invece di pace, dolore invece di gioia, ripetendo sempre gli stessi errori».