«Giuda, scagliate nel tempio le monete d’argento, si allontanò e andò a impiccarsi… Giuda, precipitando, si squarciò e si sparsero tutte le sue viscere»: sono due descrizioni diverse della fine tragica del traditore, l’una di Matteo (27,5), l’altra di Luca (Atti 1,18). Spesso persone, ferite dal suicidio di un loro caro, si sono rivolte a me con la domanda sul destino ultimo di chi compie un simile atto estremo che nella Bibbia è incarnato anche dal re Saul: «Prese la spada e vi si gettò sopra» (1Samuele 31,4). Nei testi sacri c’è, però, anche un atto visto come testimonianza radicale alla Jan Palach, il giovane ceco che si diede fuoco nel 1969 contro l’invasione sovietica nella sua patria: è quello dell’ebreo Razis che «si piantò la spada in corpo preferendo morire nobilmente piuttosto che diventare schiavo degli empi» (si legga 2Maccabei 14,37-46).
Nello spazio ridotto della nostra rubrica farò solo poche sofferte considerazioni su un tema così delicato e drammatico, avendo anch’io avuto non di rado contatti con persone poi suicide o coi loro parenti. La Bibbia subito ci ricorda, comunque, che solo Dio «conosce i cuori e i reni», ossia il conscio e l’inconscio intimo di una persona e, quindi, lui solo può giudicare il segreto ultimo del suicida.
Un teologo francese, Roger Troisfontaines, anni fa nel saggio Je ne meurs pas («Io non muoio») aveva pensato che Dio conceda all’uomo, giunto alla frontiera estrema della vita, la possibilità di un’ultima opzione attraverso uno sguardo sintetico e supremo della propria esistenza: ormai la persona è sul crinale tra tempo ed eterno e ha un’istantanea illuminazione che la abilita alla scelta netta e radicale tra bene e male, conversione e ostinazione, Dio e orgoglio. È un po’ secondo questa speranza che anche la prassi ecclesiale è ora molto rispettosa nei confronti dei suicidi.
Certo, in un contesto socio-culturale spesso simile a un deserto in cui si sono inariditi i valori, la vita è talora umiliata nella sua dignità profonda, la solitudine disperata ferisce l’esistenza di molti, è necessario rieducare all’impegno per colmare di significato il vivere, per sostenere le persone in crisi spirituale o mentale, esaltando la grandezza e il mistero dell’uomo e della donna che non possono essere arbitri assoluti della vita: «Solo il Signore» – si legge nel libro di Giobbe (12, 10) – «ha in mano l’anima di ogni vivente e il respiro dell’uomo di carne».
Tuttavia, fermo restando il dichiarato principio della trascendenza della vita, caro a tutte le religioni, la Chiesa cattolica, in sede non solo pastorale ma anche giuridica (si vedano i canoni 1321- 1324 del Codice di diritto canonico), propone che la comunità celebri i funerali religiosi dei suicidi, tenendo conto proprio del mistero intimo, del travaglio, delle complesse e delicate dinamiche psicologiche e mentali che stanno alla base di quel gesto e dell’immensa sofferenza dei familiari.
Certo, chi con spregio ostentato della vita (si pensi, tanto per esemplificare, a certe stupide sfide di alcuni giovani ai limiti dell’assurdo) o per scelta ideologica, in piena autonomia (deliberato consilio, si diceva nel linguaggio morale latino tradizionale) si è dato la morte non avrà esequie ecclesiali ufficiali, ma potrà sempre essere accompagnato dalla preghiera della comunità. Questi casi sono sempre comunque eccezioni da vagliare, di fronte a una consuetudine generale di vicinanza, di rispetto, di affidamento al Signore della vita davanti ai gesti tragici.