La diversa leadership del buon pastore
Gesù disse: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde». Giovanni 10,11-18
Chi conosce più il duro lavoro del pastore? La Palestina di Gesù lo conosceva bene, era uno dei lavori più comuni, era lavoro popolare. Quindi evocare il nome e i gesti del pastore signicava entrare immediatamente dentro il linguaggio della gente normale ed essere capiti. Gesù era così, i profeti erano così, i salmi erano così. In questa immagine del buon pastore rivivono infatti Ezechiele (cap. 34) e il grande Salmo 23 del buon pastore: «Il signore è mio pastore, non manco di nulla…».
Il mestiere del pastore era, ed è, un’arte complessa. Il pastore vive in un rapporto di reciprocità con il gregge, che è un insieme variegato. Accanto alle pecore grasse e sane, ci sono diverse categorie di animali fragili. La gran parte del gregge è dunque costituito da pecore bisognose di una cura speciale e specifica da parte del pastore. Ci sono quelle deboli, magari perché ancora agnellini, quelle permanentemente inferme a causa di menomazioni e incidenti, altre ferite dall’attacco di lupi o cinghiali, alcune smarritesi in seguito a un forte temporale o a un assalto, e qualche pecora che non ha più trovato la strada durante un difficile attraversamento notturno.
Il buon pastore è colui che ha sviluppato la capacità di custodire l’intero gregge, che ha allargato il suo sguardo fino a includere tutte, a cominciare dalle ultime, fino a proteggere anche pecore di altri greggi, fuori dal recinto. Il mercenario, invece, cura solo le forti e le grasse, e non protegge l’intero gregge. Il primo indicatore di bontà di un pastore non è il latte o la lana che ricava dalle pecore, ma l’equilibrio e l’armonia del gregge nel suo insieme, e quindi la cura degli ovini più vulnerabili: il numero di ferite che ha sanate, di disperse che ha ritrovate, di deboli irrobustite.
IL BENE DI TUTTI.
La leadership del buon pastore è speciale e diversa, se confrontata con quella del generale in battaglia, oppure, oggi, con la leadership d’impresa. Il suo obiettivo non è la massimizzazione del profitto, perché se così fosse non avrebbe senso dedicare energie e cura soprattutto agli animali più fragili e agli “scarti”.
La cultura di governo del pastore è la cultura del bene comune, cioè il bene di tutti e di ciascuno, del gregge e di ogni pecora. La cura del bene comune non può escludere nessuno, perché ogni individuo è legato a tutti gli altri, e la perdita di una sola pecora equivale all’insuccesso generale. È antimeritocratica, perché la logica che guida l’azione del pastore non è quella del merito ma quella del bisogno, che indica ordine, priorità e gerarchie di intervento. La pecora grassa e robusta non ha più meriti della dispersa e ferita, e anche se li avesse non sarebbe preferita per i suoi meriti; la debole assorbe più cura solo perché ha più bisogni della forte.
La cultura della leadership aziendale sta diventando un paradigma universale, e sta convincendo tutti che la cura per i deboli e i fragili debba essere meritocratica. L’ultimo residuo di welfare scomparirà il giorno in cui al Pronto soccorso inizieranno a chiedersi se quel malato merita di essere curato.