Nella sua etimologia, questo termine indica qualcosa di pesante, importante, e quindi degno di rispetto e onore. È usato sia per gli uomini sia per celebrare il mistero di Dio
«E' giunta l'ora che sia glorificato il Figlio dell'uomo... Padre é giunta l'ora, glorifica il Figlio tuo perché il Figlio glorifichi te> (Giovanni 12,23; 17,1) Il quarto Vangelo rappresenta la risurrezione di Cristo come un ingresso nella gloria divina: è un ritorno, perché egli – come aveva cantato san Paolo – «non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso, assumendo la condizione di servo, diventando simile agli uomini... facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce» (Filippesi 2,6-8). Nella pasqua Cristo riprende la gloria propria della sua natura divina, e l’Ascensione al cielo che celebriamo in questi giorni è la rappresentazione quasi visiva della sua glorificazione.
Abbiamo, così, pensato di aggiungere alla ormai lunga lista di parole ebraiche fondamentali kabôd, «gloria», che nella sua etimologia profonda indica qualcosa di «pesante, importante, rilevante», degno perciò di rispetto e onore. Il termine è presente 200 volte nell’Antico Testamento (il verbo corrispondente ha 114 citazioni) e può essere assegnato sia alla persona umana per definirne la grandezza e dignità, sia a Dio per celebrarne il suo mistero luminoso, invalicabile al nostro sguardo, come lo è il sole.
Significativa, a quest’ultimo proposito, è la scena in cui Mosè aspira a contemplare da vicino il volto di colui che l’ha chiamato ad essere guida del suo popolo. «Mosè disse a Dio: Mostrami la tua gloria (kabôd)!... Rispose: Tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo!» (Esodo 33,18.20). Questo dialogo è illuminante per comprendere il valore primario del termine kabôd: esso viene identificato col volto divino, cioè con la persona stessa del Signore. Si vuole, dunque, fare riferimento al mistero di Dio che può manifestarsi con la sua parola ma che rimane celato nella sua identità profonda, essendo di sua natura eterno, infinito, trascendente e, quindi, inesauribile da parte della visione e del pensiero umano.
Eppure la gloria non isola Dio in un mondo dorato e inaccessibile, tant’è vero che al Sinai essa si manifesta, sia pure velata da una nube e da un fuoco intenso: «La gloria (kabôd) del Signore apparve nella nube... La gloria del Signore appariva agli occhi degli Israeliti come fuoco divorante sulla cima del monte» (Esodo 16,10; 24,17). La gloria divina si insedia anche nel tempio e da lì si irradia in tutto l’universo, come si intuisce nel racconto della vocazione del profeta Isaia (6,3) coi serafini che cantano: «Santo, santo, santo è il Signore degli eserciti. Tutta la terra è piena della sua gloria (kabôd)». E i fedeli devono raccogliere l’invito del Salmista: «Figli di Dio, date al Signore gloria (kabôd) e potenza... Nel suo tempio tutti dicono: Gloria (kabôd)!» (Salmo 29,1.9; si veda anche 96,7-8).
Abbiamo, però, affermato che c’è anche una gloria che è legata alla dignità della persona umana. Essa è celebrata da un inno stupendo, il Salmo 8: «Veramente hai fatto l’uomo poco meno di un dio, di gloria (kabôd) e di onore lo hai coronato» (8,6). Nell’era messianica il Signore «farà scorrere verso Sion come un fiume la pace; come un torrente in piena, la gloria (kabôd) delle genti» (Isaia 66,12). Nella città santa l’umanità intera porta la sua ricchezza spirituale e sociale, così che tutti insieme siano avvolti dalla gloria divina che si accompagna alla pace. Proprio come cantano gli angeli nella notte di Natale: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini che egli ama» (Luca 2,14).