Ci saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti, mentre gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra. Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte». Queste sono le prime frasi che i nostri lettori ascolteranno nella liturgia di questa prima domenica di Avvento: è Gesù che sta tenendo il cosiddetto «discorso escatologico», ossia sulle «cose ultime» della storia umana (Luca 21,25-26).
Se, poi, tornati a casa volessero prendere in mano la loro Bibbia, leggerebbero questa sorta di sceneggiatura apocalittica nella Seconda Lettera di Pietro: «Il giorno del Signore verrà come un ladro; allora i cieli spariranno in un grande boato, gli elementi, consumati dal calore, si dissolveranno e la terra, con tutte le sue opere, sarà distrutta » (3,10). Questo linguaggio era allora molto diffuso e apparteneva alla cosiddetta letteratura apocalittica, iniziata col libro del profeta Daniele e diffusa poi in molti testi apocrifi, mentre nel Nuovo Testamento entrerà con l’Apocalisse di Giovanni. Gesù adotta questo genere letterario non tanto per elaborare previsioni sui segni della fine del mondo, ma per ribadire che il regno di Dio, già presente nella storia anche attraverso la sua persona, è destinato a raggiungere una meta di pienezza. Potremmo dire che Cristo non vuole proporre un messaggio che riguardi la fine del mondo, ma il fine verso cui tende tutto l’essere. Il discepolo del regno di Dio dev’essere attento e vigilante, pronto a offrire il suo impegno operoso collaborando all’attuazione del progetto divino di giustizia, amore e verità. Esso avrà il suo compimento alla meta ultima della storia umana.
Questo non toglie la possibilità che le immagini apocalittiche sopra descritte potessero essere assunte dagli uditori come un inquietante oroscopo sulla fine della storia e del mondo. Così, leggendo nei Vangeli quelle parole di Gesù, molti che avevano assistito alla rivolta antiromana del 66-70 d.C. e alla relativa distruzione di Gerusalemme, pensavano che quelle scene apocalittiche fossero un’anticipazione degli eventi di cui erano stati spettatori. Si creava, così, l’idea che la storia fosse ormai agli sgoccioli e incombesse la fine: già anni prima san Paolo aveva dovuto contrastare le idee di alcuni cristiani della città greca di Tessalonica, convinti che ormai la vicenda umana fosse giunta all’approdo.
Questo fraintendimento viene riproposto ai nostri giorni dalle letture cosiddette “fondamentaliste”, ossia letteraliste, della Bibbia sulle quali siamo già intervenuti più volte. Esse sono incapaci di cogliere l’intreccio tra il genere letterario e il messaggio e quindi la necessità di distinguerli. Si corre così il rischio di considerare la modalità espressiva con i suoi simboli, le sue immagini, le sue formule fisse non come strumento di comunicazione ma scambiandole per contenuto. Non per nulla, in passato, è accaduto che alcuni movimenti religiosi annunciassero la data della fine del mondo sulla base di una lettura letteralista dell’Apocalisse.
In realtà Gesù, che dichiara esplicitamente di ignorare la data della fine del mondo (Marco 13,32: «Quanto a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli del cielo né il Figlio, eccetto il Padre»), vuole puntare – lo ripetiamo – più che alla fine del mondo, al fine della storia, cioè alla meta ultima, al senso supremo dell’essere e dell’esistere.