La gola è un vizio che non finisce mai, ed è quel vizio che cresce sempre quanto più l’uomo invecchia». Così parla Rodolfo, il protagonista della commedia La bottega del caffè (1750) di Carlo Goldoni. Ritorniamo, dunque, ancora una volta nell’orizzonte negativo di un’esigenza di per sé legittima e necessaria, il cibarsi. Che la società attuale non sia in armonia col cibo, lo dimostra l’ossessione della dieta e della bilancia, con una frenesia tale che può trasformarsi anche in patologia medica: pensiamo al dramma antitetico della bulimia e dell’anoressia che, in realtà, spesso sono una forma tremenda per lanciare messaggi esistenziali di solitudine, di insicurezza, di disistima, di abbandono.
Noi, però, ci collochiamo nell’ambito morale, denunciando appunto il quinto dei cosiddetti vizi «capitali», che ha come simbolo la gola. Per quelli che usano disordinatamente il cibo e le bevande (si pensi al coma etilico di certi giovani, dopo una notte folle) vale l’asserto di san Paolo: «La perdizione è la loro fine perché hanno come dio il loro ventre» (Filippesi 3,19). A livello non solo fisico vale, perciò, quanto si legge nel libro delle tradizioni giudaiche, il Talmud: «La gola ha ucciso più uomini che la fame».
Frase che è diventata il nostro proverbio «Ne uccide più la gola che la spada». Divertente è la forma spagnola di questo detto: «Más mató la cena que sanó Avicenna». Il celebre medico arabo dell’XI sec. Avicenna, ossia la medicina, guarì meno persone di quante ne eliminò la crapula. Ancora san Paolo ammoniva: «Comportatevi onestamente, come in pieno giorno: non in mezzo a gozzoviglie e ubriachezze, non fra impurità e licenze, non in contese e gelosie» (Romani 13,13). Il papa san Gregorio Magno ricordava, sulla scia dell’apostolo, che la gola ha cinque figlie: la sciocca allegria, la scurrilità, la chiacchiera, l’impurità, l’ottusità della mente.
La Bibbia a questo proposito ci offre molti spunti a partire da Esaù, il figlio del patriarca Isacco che, dopo una battuta di caccia, non sa controllarsi per la fame e al fratello minore Giacobbe urla la sua voglia della minestra di lenticchie da lui preparata. Sappiamo tutti come andò a finire, con la perdita del diritto di primogenitura (si legga Genesi 25,29-34). Veemente è lo sdegno del profeta Amos nell’VIII sec. a.C. contro le orge dei membri delle alte classi di Samaria che «sdraiati su divani d’avorio, mangiano gli agnelli del gregge e i vitelli delle stalle. Canterellano al suono dell’arpa, vogliono gareggiare con Davide negli strumenti musicali, bevono vino in larghe coppe, si profumano coi balsami più raffinati» (6,4-6). A questi banchetti s’associano anche le principesse, simili a «vacche di Basan: opprimono i deboli, sfruttano i poveri e ai loro mariti dicono: Porta qua, beviamo!».
Una scena analoga è ripresa quasi dal vivo anche da Isaia, con persone «stordite dal vino»; ma nel clamore della festa irrompe all’improvviso «un inviato del Signore, un uomo potente e forte» che strappa dalle loro teste i diademi di fiori e li calpesta. È il simbolo del giudizio di Dio che usa come suo strumento di condanna il re assiro Sargon II che distruggerà Samaria nel 721 a.C. (Isaia 28,1-3).
Continueremo questa sorta di filmato contro il peccato di gola nella prossima tappa del nostro viaggio nella regione oscura del vizio.