Deposizione, opera di Courtois Guillame (1628 - 1679), Roma, Accademia di San Luca
"Cristo Gesù svuotò sé stesso assumendo la condizione di schiavo...Umiliò sé stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte in croce."
(Filippesi 2,7-8)
Nelle nostre memorie scolastiche la città
macedone di Filippi – che portava il
nome del suo fondatore, Filippo II, padre
di Alessandro Magno (IV secolo a.C.) – è
presente per la battaglia decisiva del 42 a.C.
tra Ottaviano Augusto e Marco Antonio, da
una parte, e Bruto e Cassio, dall’altra. Battaglia
che ha generato il motto: «Ci rivedremo
a Filippi», riferito dallo storico greco Plutarco.
Per il cristianesimo, Filippi – che ancora
oggi offre una significativa testimonianza
archeologica della sua gloria antica – è legata
alla presenza di Paolo e alla Lettera che,
attorno al 55-56, indirizzò a quella comunità
cristiana a lui unita da un intenso vincolo
di amicizia.
In questo scritto, come annotava uno studioso,
Jerome Murphy O’Connor, «si sente
battere il cuore di Paolo»: «Nessuna Chiesa
aprì con me», confessa l’Apostolo, «un conto
di dare e di avere, se non voi soli... Sono ricolmo
dei vostri doni... che sono un profumo
di soave odore, un sacrificio accetto e
gradito a Dio» (4,15-18). Ora, nel capitolo 2
di questa Lettera è incastonato un inno
(2,6-11) che è modellato su un simbolo spaziale,
la discesa-ascesa di Cristo sull’asse cielo-
terra-cielo. Ecco innanzitutto la discesa
umiliante del Figlio di Dio quando s’incarna,
divenendo uomo tra gli uomini, abbandonando
la sua gloria. Anzi, il suo è un vero
e proprio precipitare in un abisso: egli, infatti,
muore in croce, il supplizio riservato agli
schiavi, agli ultimi della terra.
Solo così Cristo diventa veramente fratello
di tutte le creature umane, non escludendo
neanche quelle che sono nei bassifondi
estremi della società, inserendo, però, con il
suo passaggio nella nostra carne, la presenza
salvifica e trasformatrice della sua divinità.
Ma dalla vetta del Golgota ove si leva la croce
ha inizio l’altro movimento spaziale, quello
dell’ascesa, che l’inno descrive nella sua seconda
parte (2,9-11). Cristo ritorna nella sua
gloria con il nome di Kyrios, “Signore”, appellativo
divino; egli brilla di nuovo nella luce
della trascendenza che si era eclissata nella
morte in croce, quando Gesù si era «svuotato
» della sua dignità altissima non solo per
essere accanto all’umanità, ma anche per entrare
nel suo grembo, fatto di miseria, di limite
e di peccato così da redimerla.
Ecco, noi vorremmo ora puntare brevemente
la nostra attenzione proprio su quella
frase «svuotò sé stesso», in greco ekénosen,
un verbo che ha dato origine a un vocabolo
“tecnico” della teologia, kénosis, destinato appunto
a indicare l’abisso in cui Dio precipita
nel Figlio morto in croce e umiliato. È, questo,
il segno pieno e definitivo di quel mistero
centrale del cristianesimo chiamato
“incarnazione”. Nella kénosis-“svuotamento”
si ha, infatti, il vessillo e la sintesi della
storia di Gesù di Nazaret, divenuto uomo tra
gli uomini, povero, umile, condannato a una
pena capitale infamante, riservata solo agli
schiavi e ai ribelli antiromani. Eppure, quello
“svuotamento” liberamente scelto da Cristo
non ne annienta la divinità.
Essa riappare quando si è raggiunto il fondo
ultimo della kénosis, la morte. È là che si
apre l’alba di Pasqua, la gloria della risurrezione.
Vorremmo concludere, allora, questa
nostra riflessione sul frammento di un testo
paolino così importante con le parole che un
famoso scrittore russo, l’autore del Dottor
Živago, Boris Pasternak (1890-1960), mette
in bocca allo stesso Gesù: «Scenderò nella bara
e il terzo giorno risorgerò / e, come le zattere
discendono i fiumi, / in giudizio, da me, come
chiatte in carovana, / affluiranno tutti i secoli
dell’umanità».