Lo Spirito Santo, una presenza liberante
«Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre» Giovanni 14,15-16
Sette settimane dopo la Pasqua – il cinquantesimo giorno – è la Pentecoste. Era l’antica festa dell’alleanza: Israele arrivò al Sinai cinquanta giorni dopo l’uscita dall’Egitto e in quella data festeggiava il patto con Dio. In una festa di Pentecoste lo Spirito Santo scese sugli apostoli e la Chiesa venne alla luce: uscì all’aperto e cominciò ad annunciare il Vangelo. Gli Atti degli Apostoli ci raccontano questo evento che ha dato origine alla missione della Chiesa. Il brano del Vangelo ripropone un brano molto denso dei discorsi di addio di Giovanni. I passi in cui Gesù parla dello Spirito consolatore si inseriscono in un preciso contesto esistenziale: il tempo della Chiesa con i suoi problemi e i suoi interrogativi, l’odio del mondo, la persecuzione, l’incredulità che perdona.
Alla luce di questo contesto si comprendono bene i tre compiti fondamentali che il quarto evangelista assegna allo Spirito: conservare fedelmente la memoria di Gesù, la comprensione interiore e personale della sua Parola, il coraggio della testimonianza. Nel nostro passo specifico un’idea forte – forse la più importante – è che la condizione per accogliere lo Spirito è l’amore a Gesù («Se mi amate, osserverete i miei comandamenti»), l’ascolto della sua Parola e l’osservanza dei comandamenti. Tre cose, dunque, molto concrete e persino verificabili. Se mancano queste tre condizioni non c’è alcun spazio per lo Spirito.
D’altra parte, nel passo della Lettera di Paolo ai Romani (8, 8-17) che costituisce la seconda lettura della Messa, Paolo insegna che lo Spirito è libertà, perché ci libera dalla schiavitù della carne, cioè dall’egoismo. Lo Spirito trasforma i desideri dell’uomo: non più i desideri dell’egoismo, ma della carità. Prigioniero del suo egoismo (la carne) l’uomo sente la legge dell’amore (la legge di Dio) come un peso e una schiavitù. Lo Spirito muta il “desiderio” dell’uomo: la legge della carità diviene ciò che desidera, a cui tende. Lo Spirito libera l’uomo trasformandolo dall’interno, capovolgendo la natura profonda del “desiderio”. Ma non si tratta solo di questo. Lo Spirito rinnova anche il rapporto con Dio: non più schiavi, ma figli. E anche questo è grande libertà. Se poi Paolo precisa che si tratta di una filiazione “adottiva”, non è per sminuirla, tanto meno per affermare che si tratta di qualcosa di esterno e giuridico, ma per ricordarne la gratuità.
Per Paolo la presenza dello Spirito è una presenza liberante, che si lascia discernere da alcuni segni: un capovolgimento nella logica della vita, un nuovo rapporto con Dio sperimentato come Padre, l’intima convinzione (a dispetto delle smentite, della poca fede e dello stesso peccato) di essere figli di Dio. È dunque un nuovo rapporto con Dio: l’uomo può rivolgersi a lui liberamente, francamente e confidenzialmente. Non più un rapporto di schiavitù ma di libertà: il cristiano può far sua la medesima confidenza e la medesima libertà di Gesù verso il Padre. Questo rapporto filiale con Dio è la radice di ogni altra libertà.
La Pentecoste porta a compimento la Pasqua, lo Spirito realizza l’opera di Gesù; grazie allo Spirito noi siamo diventati figli, possiamo vivere da figli. Con gratitudine, riconoscenza e libertà accogliamo lo Spirito di Dio, lasciamolo agire nella nostra vita e vedremo dei cambiamenti grandi!