«Se si ama la giustizia, le virtù sono frutto dell’impegno. Essa, infatti, è maestra di temperanza e di prudenza, di giustizia e di fortezza, delle quali nulla è più prezioso agli uomini durante la vita». Rivestito delle insegne fittizie del re Salomone, l’anonimo autore del libro biblico della Sapienza delinea in modo limpido le cosiddette virtù cardinali (8,7), echeggiando una serie già elencata dal filosofo Platone nel suo dialogo intitolato La Repubblica.
Anche noi ora ci avviamo a presentare questi quattro punti «cardinali» della morale, simili a quattro stelle accese nel cielo della vita giusta o, se si vuole, a quattro lampade che illuminano la strada dell’esistenza quotidiana. I loro nomi, come si è visto nella citazione biblica di apertura, sono: prudenza, giustizia, fortezza e temperanza. Esse si oppongono alla sequenza dei vizi che in passato abbiamo fatto sfilare nella nostra rubrica. Lo scrittore americano Henry D. Thoreau (1817-1862) ammoniva, infatti, che «non v’è un istante di tregua nella lotta tra vizio e virtù».
Questa volta inizieremo a presentare la prima virtù dell’elenco tradizionale, la prudenza (Platone la chiamava più generalmente «la sapienza») ed è scontato partire da una nota frase, acuta e tagliente, di Gesù: «Siate prudenti come i serpenti e semplici come le colombe» (Matteo 10,16). Mille anni prima di Cristo un saggio egiziano, Amenem-ope, era invece ricorso a un'immagine vegetale per celebrare questa virtù che tiene lontano dagli eccessi e dagli sbandamenti: «L’uomo veramente prudente, che sa stare al suo posto, è come un albero che cresce in un giardino: fiorisce e produce frutti abbondanti. Dolce è il suo frutto, piacevole la sua ombra».
Noi, però, per illustrare questa virtù ci affideremo a un racconto di Gesù che tutti conosciamo come la «parabola delle vergini stolte e delle prudenti» (Matteo 25,1-13), proprio perché mette in azione cinque damigelle sventate e imprudenti e cinque sapienti e accorte, all’interno di una scena notturna, squarciata dalle fiaccole e dalle lucerne di una festa nuziale. L’aggettivo greco usato dall’evangelista per definire queste ultime è frónimoi, che è appunto il termine adottato dal Nuovo Testamento 14 volte per indicare la persona prudente e assennata.
La veglia, che precede il corteo verso la casa dello sposo ove si consumerà il banchetto nuziale, si protrae fin oltre il tramonto: la sposa, come è di rito, si fa attendere attardandosi negli ultimi preparativi e negli addii alla sua casa. La stanchezza fa calare le palpebre alle damigelle e le loro lucerne, destinate a illuminare e allietare il corteo, si estinguono. L’attenzione di Gesù punta non tanto sulle ragazze prudenti che hanno con sé una riserva di olio per le loro lampade, ma – con un contrasto molto efficace – sulle altre giovani un po’ stupidine. Nei loro pensieri non c’era stato spazio per la previsione, il loro era un vivere al momento rivelando in tal modo il tenore del loro temperamento di persone fatue, vane, svampite.
Così, quando il corteo si muove, esse sono lontane, prese dall’acquisto di olio, dopo aver tirato giù dal letto il negoziante del villaggio. Ecco, allora, l’aspro esito di chi non è frónimos, cioè di chi non esercita la virtù della prudenza: le cinque ragazze imprudenti sono là, sole, nel freddo e nelle paure notturne davanti a una porta sbarrata. Dall’interno della casa dello sposo si ode il frastuono della festa, ma, al loro reiterato bussare, filtrano solo le gelide parole pronunziate dallo sposo: «Io non vi conosco!»