Attorno alla parola «salvezza» – che è al centro di tutte le religioni – si dispongono quasi come in una costellazione tanti altri termini ad essa collegati: redenzione, perdono, espiazione, riconciliazione, grazia, conversione, rinascita, giustizia, vita eterna e così via. È, quindi, importante collocare questo tema anche all’interno del minivocabolario di greco del Nuovo Testamento che stiamo ormai da tempo allestendo.
Si pensi che la radice che è alla base di questo concetto e che ha come riferimento il verbo sôzô, «salvare», anche nelle sue variazioni (salvezza, salvatore) ricorre ben 192 volte nel solo Nuovo Testamento. Ma la presenza del tema, attraverso la radice verbale ebraica jsh‘, è già rilevante nell’Antico Testamento ed è alla base anche di nomi importanti come Giosuè, Giosia, Isaia, Osea.
Sappiamo poi che quella stessa radice è la sostanza del nome Gesù, come ricorda l’angelo a Giuseppe: «Lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati» (Matteo 1,21). Il verbo ebraico in questione sopra citato, nel suo significato primario, indicava l’allargarsi dello spazio vitale e quindi era spesso l’equivalente per esprimere la vittoria da un’oppressione. Non per nulla il grande atto di salvezza-liberazione che il Signore compie nei confronti di Israele è l’esodo dalla schiavitù egiziana. C’è, dunque, un nesso tra la dimensione fisica o storica e la prospettiva religiosa. Anche Gesù collega spesso la salvezza alla liberazione dal male corporeo, ma nei miracoli egli chiede che questa connessione avvenga attraverso la fede. Non per nulla non di rado a suggello della guarigione esclama: «La tua fede ti ha salvato!» (Luca 6,9; 17,19).
Più che sul verbo sôzô citato, presente ben 106 volte nel Nuovo Testamento, noi ora evocheremo il sostantivo sôtêría, «salvezza», usato 45 volte fin dagli inizi della vita terrena del piccolo Gesù. Infatti Zaccaria nel suo inno Benedictus per la nascita del figlio Giovanni Battista annuncia che «Dio ha suscitato per noi una salvezza potente» (Luca 1,69), ossia il Salvatore Gesù che sarà presentato al popolo proprio dal Battista. Il vecchio Simeone è felice «perché i miei occhi hanno visto la salvezza», mentre stringe tra le braccia il neonato Gesù (2,30: qui si usa la variante sôtêrion).
Il vangelo che Cristo annunzierà sarà appunto la proclamazione di una salvezza piena, come ricorda lui stesso nel solenne discorso tenuto nella sinagoga di Nazaret, allorché dichiara di essere stato inviato «per annunziare ai poveri un vangelo» di liberazione e di gioia (Luca 4,18-19). E san Paolo definisce il vangelo come «potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del giudeo prima e poi del greco» (Romani 1,16). La salvezza è, quindi, un dono divino universale che attraversa l’Antico e il Nuovo Testamento, che coinvolge corpo e spirito, che supera le frontiere delle società e dei popoli e che intreccia storia ed eternità.
A quest’ultimo proposito è significativa sia in Luca sia in Giovanni l’affermazione che la salvezza inizia già ora nell’esistenza attuale, attraverso la fede, la carità e la vita di grazia. A Zaccheo Gesù dice: «Oggi la salvezza è entrata in questa casa» (Luca 19,9). Nel suo dialogo notturno con Nicodemo Cristo proclama: «Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (Giovanni 3,17). Ma la salvezza, che ha la sua sorgente nella vittoria suprema di Cristo sulla morte nella risurrezione, otterrà il suo compimento nella pienezza dei tempi: «Chi avrà perseverato sino alla fine sarà salvato» (Marco 13,13). Nel battesimo si riceve, quindi, il germe vivo e operante della salvezza che raggiungerà la sua efflorescenza piena nella gloria finale. Dichiara, infatti, il Cristo risorto agli Undici riuniti a mensa con lui: «Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato » (Marco 16,16).