Sono passati esattamente due anni da quel fatidico 21 febbraio 2020, quando a Codogno fu scoperto il primo paziente colpito dal Covid-19. Ma sembra che sia trascorso un secolo. Quella data ci appare lontana, “preistorica”. Eravamo spaventati e disorientanti. Non potevamo immaginare che avremmo vissuto pericolosamente per un biennio e soprattutto nulla faceva presagire che avremmo avuto oltre 140 mila morti, un numero tragicamente superiore alle vittime civili della Seconda guerra mondiale.
Poi sono arrivati i vaccini e la speranza ha prevalso. Dopo aver affrontato la quarta ondata siamo come assuefatti e un po’ storditi. Ma quale eredità ci lascerà questo periodo pandemico? Forse dovremmo riflettere, anche a livello interiore e personale, sul fatto che non possiamo più andare avanti, né come individui né come specie, pensando alla salute come a un obiettivo svincolato da tutto il resto. Ecco perché si parla sempre di più di One Health, una visione olistica, un modello sanitario basato sull’integrazione di discipline diverse. Si basa sul riconoscimento che la salute umana, animale e dell’ecosistema siano legate indissolubilmente.
Per esempio, i meccanismi di produzione e distribuzione del cibo possono portarci sulla tavola dei microbi che proprio non dovrebbero esserci, come è accaduto alla fine del 2018 negli Stati Uniti, con una contaminazione da Escherichia coli, derivata da una partita di insalata infetta, che ha interessato ben 16 Stati. Essere in grado di vivere bene in armonia con il creato è la grande sfida del nostro secolo e richiede un cambio di mentalità che deve avvenire il prima possibile, se si vuole provare a invertire la rotta e scongiurare nuove pandemie.