Il seme ci ricorda che tutto è grazia
Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga». Marco 4,26-34
Il seme è un’immagine molto cara ai Vangeli, forse quella più amata quando vogliono esprimere la natura del Regno dei cieli. Se avessimo soltanto l’immagine della perla preziosa non capiremmo la logica di questo Regno diverso. Perché nel messaggio di Gesù c’è senz’altro qualcosa che, come la perla, va custodito, protetto, per evitare che si deteriori o si smarrisca. Ma la perla non cresce, non cambia nel tempo, non diventa qualcosa di diverso dal giorno in cui la compriamo. Perché non è viva, o perché ha una vita troppo più lenta di quella che noi esseri umani possiamo osservare nel suo scorrere.
Il seme è diverso. Il seme è vivo, cresce, diventa qualcosa di diverso da come ci appare oggi. Il chicco non è il seme ingigantito. Il chicco e la spiga sono ciò che diventa il seme dopo essere “morto” sotto la terra. Il chicco di frumento è metamorfosi del seme, è la sua resurrezione. E la qualità e la stessa vita di quel grano che risorge dalla terra dipendono dai sali e dai minerali del terreno dove viene gettato, dal suolo, dalla pioggia e dalla grandine, dagli insetti e dagli uccelli, da tutti gli animali della campagna.
La metamorfosi è un’azione collettiva. Ha una sua forza interna e misteriosa («egli stesso non lo sa»), che per certi versi non dipende dall’azione del contadino, perché agisce indipendentemente dalla sua cura. Questa è un’altra dimensione della metafora del seme: il suo sbocciare dal terreno non è una faccenda di virtù, la sua forza è iscritta dentro il suo Dna. Quindi il seme del Vangelo agisce in noi non perché siamo buoni e virtuosi: agisce e basta, per sua forza. Direbbe san Paolo: non siamo stati salvati perché eravamo buoni, ma diventiamo più buoni (qualche volta) perché siamo stati salvati dalla forza intrinseca della grazia.
E invece noi abbiamo costruito una religione tutta attorno al nostro impegno, alla forza delle nostre pratiche e dei nostri culti, quasi per non dover dipendere dalla grazia per la nostra salvezza. No: Marco ci dice che il seme opera perché non può non operare. È fatto così.
FINALE GUASTATO.
Al tempo stesso, anche un buon seme può finir male, se incontra le spine o i sassi. Il seme che finisce in queste zone non fertili non era cattivo seme: era come l’altro che produce 100. Una vita cristiana può non riuscire non solo per la nostra cattiveria, un buon seme può avere un finale guastato solo perché il terreno non era adatto, o perché è arrivata la tempesta o una cornacchia. Il «terreno produce spontaneamente » i suoi frutti, ma non siamo noi i padroni di tutto il processo. Nessun contratto di assicurazione ci può garantire che una vocazione finirà bene, nessuno di noi controlla tutte le fasi della metamorfosi e della resurrezione del buon seme.
Da qui due conclusioni. Ogni resurrezione del seme in grano è gratuità, è dono, è tutta grazia e non nostro merito. E dietro un seme che non diventa buon frutto ci possono essere molte ragioni, non solo né tanto la nostra cattiveria. Quindi non dobbiamo giudicare quando vediamo un seme finire male, potrebbe solo aver incontrato un animale selvatico o una grandinata. E poi ringraziare quando vediamo in noi o attorno a noi che qualche grano finisce sicuro nel granaio.