Il tesoro inestimabile della Vita senza fine
Uno della folla disse a Gesù: «Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità». Rispose: «Uomo, chi mi ha costituito giudice sopra di voi?». E disse loro: «Tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede». Luca 12,13-15
Che cosa è veramente prezioso? Che cosa conta alla fine? Per che cosa ci affanniamo, consumando la nostra esistenza e le nostre energie? La liturgia di oggi ruota intorno a queste domande, e offre la risposta: la nostra vita, tesoro inestimabile, è dono di Dio e appartiene a Lui. Egli è l’origine, presso di Lui è la meta e lo scopo: la ricchezza che possediamo è esclusivamente in questo suo dono, che non verrà mai revocato, ma trasfigurato e trasformato nell’eternità beata.
Le letture ci trasmettono questa verità muovendo dalla constatazione che la vita terrena, senza l’orizzonte di senso della fede e della pienezza in Dio, è «vanità delle vanità» (Qoelet, I lettura). L’autore di questo libro biblico, uno dei capolavori sapienziali dell’Antico Testamento, «parlando in assemblea», dice di essere stato «re di Israele in Gerusalemme», uomo dunque che conosce l’agiatezza e il prestigio. Egli offre una riflessione ampia sulla realtà dell’uomo e pubblicamente riconosce che sulla terra prevalgono sofferenza, preoccupazioni e fatica, e che anche chi opera con scienza e successo dovrà abbandonare quello che ha costruito. La vita dell’uomo è caduca, «come un sogno al mattino, come l’erba che germoglia e alla sera dissecca» (Responsorio); solo se siamo amici di Dio, prosegue il Salmo 89, impareremo a «contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore»; così, in Dio, «esulteremo e gioiremo per tutti i nostri giorni». Il credente biblico, il cristiano, non è uno che vive sulle nuvole, che non ha il senso della realtà e non conosce le sofferenze del mondo: al contrario, vive pienamente il suo tempo, ma sa di non appartenergli, è “nel mondo ma non del mondo”, i suoi occhi guardano più lontano, a quanto davvero conta e non passerà. Egli affronta la storia e la realtà sapendo che, qualunque sia l’epilogo delle vicende terrene, esso non è la fine: l’ultima parola è sempre quella della Vita senza tramonto, data da Dio, in Cristo, a tutti gli uomini.
LA VERITÀ SU NOI STESSI Questo ricorda anche san Paolo, che ci accompagna nelle domeniche estive con la bellissima lettera ai Colossesi (II lettura): «Se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù»; cercatele qui, ora, nella vostra quotidianità, perché «la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio». È la chiamata meravigliosa all’eternità: la nostra vita è lì, già eterna, con Cristo e in Dio! Il cristiano lo sa e vive così: non pensa che la sua felicità e la sua sicurezza dipendano da ciò che fa o da ciò che ha costruito in vita; tutto questo è certamente utile nell’immediato, per la vita terrena, ma non è la verità su noi stessi e sulla nostra chiamata. Noi non siamo quello che facciamo o possediamo: noi siamo figli amati di Dio, chiamati da Lui alla vita per sempre. Questo è il senso della parabola narrata da Gesù: non si tratta di demonizzare o rifiutare l’impegno nel contingente né i beni materiali, ma di comprendere che essi non sono il fine e non descrivono noi e la nostra dignità. Quella l’ha definita Dio, al momento della creazione, e l’ha ribadita nella redenzione: noi valiamo il Sangue di Cristo, e la nostra vita è un tesoro inestimabile, senza fine.