La perseveranza della Croce, via di pace
Ho un battesimo nel quale sarò battezzato, e come sono angosciato finché non sia compiuto! Pensate che io sia venuto a portare pace sulla terra? No, io vi dico, ma divisione. Luca 12,50-51
Il Vangelo di oggi è un testo scarno e severo, che lascia a prima vista interdetti: come è possibile che il Risorto, Principe della pace, affermi di essere venuto a portare sulla terra la divisione? Che significa questo testo, e cosa vuole dirci?
La liturgia ruota intorno alla chiamata arcana e sublime della Croce, supplizio e via di salvezza, «scandalo per i giudei, stoltezza per i pagani, ma, per chi crede, potenza di Dio e sapienza di Dio» (Paolo, 1Corinzi 1,23). La Croce è quella divisione che Gesù dice di portare sulla terra: ci ha salvati in questo modo incomprensibile e a tratti inaccettabile, che gli stessi apostoli, Pietro per primo, hanno faticato ad accogliere (Matteo 16,22), e invita ciascuno, ogni giorno, a prendere seriamente la propria croce e a seguirlo (Matteo 16,24). La scelta della Croce, la decisione di seguire Gesù e di essere autenticamente suoi discepoli, richiede di essere accolta nella sua radicalità, al di là delle dichiarazioni di principio e di comodo; per questo separa nel profondo le persone, anche quelle che condividono la stessa fede e la stessa vocazione: Gesù fa un riferimento alla famiglia, luogo degli affetti e della condivisione per eccellenza, eppure luogo nel quale più fortemente dirompe la forza della Croce, che ci mette a nudo e fa emergere chi veramente siamo. Spesso, mentre pure crediamo di aver accolto la Croce, in realtà la respingiamo, rifiutando di abbracciarla nella nostra vita, nella faticosa quotidianità che può essere fatta di un lavoro difficile, di colleghi poco gestibili, di familiari imperfetti come siamo tutti, di grandi e piccoli difetti, di malattie e sofferenze che rendono l’esistenza più dolorosa. Non solo: senza accorgercene, possiamo giungere a condannare proprio chi veramente accoglie Cristo ed è di esempio, ma risulta scomodo e forse anche insopportabile perché fa emergere la tiepidità della nostra fede. Non a caso la Lettera agli Ebrei (II lettura) sottolinea la presenza, intorno a noi, di una «moltitudine di testimoni», cui siamo chiamati a guardare, e invita a «deporre il peccato che ci assedia» e a «correre con perseveranza tenendo fisso lo sguardo su Gesù»: «di fronte alla gioia che gli era posta innanzi si sottopose alla Croce, disprezzando il disonore, e ora siede alla destra di Dio».
SOTTO IL SEGNO DELLA CROCE
Noi possiamo accogliere la Croce solo se abbiamo negli occhi il sacrificio di Cristo fatto per amore: Egli «ha sopportato contro di sé una così grande ostilità di peccatori» e noi guardando a Lui possiamo «non perderci d’animo». L’autore ammonisce: «Non avete ancora resistito fino al sangue nella lotta contro il peccato!», e la I lettura offre l’esempio di un credente che ha resistito fino al sangue, il profeta Geremia, inviato da Dio in un contesto storico assai difficile, condannato a morte, come Gesù, con un’accusa falsa e ingiusta («non cerca il bene del popolo ma il male») e salvato dalla fine certa. Ogni autentico credente, in ogni tempo, è, come Cristo, segno di contraddizione, esposto alla persecuzione anche dei suoi: egli risplende per la sua fede salda, che lo fa sperare nel Signore (Salmo 39, Responsorio) e lo rende autentico e credibile testimone dell’amore di Dio.