Nella concezione biblica il termine ha un valore molto forte, che si intreccia con la liturgia: indica un’azione salvifica divina compiuta nel passato ma il cui effetto perdura anche nel presente
«Questo giorno sarà per voi un memoriale (zikkarôn); lo celebrerete come festa del Signore: di generazione in generazione lo celebrerete come un rito perenne». Con questa frase è suggellata la narrazione biblica del rito della pasqua ebraica (Esodo 12,14). Centrale è la parola che vogliamo ora esaminare, zikkarôn, «memoriale », che nell’Antico Testamento è citata 24 volte e ha alla base un verbo di grande rilievo nelle Sacre Scritture, zakar, «ricordare», presente 288 volte. È interessante notare che in italiano questo termine rimanda al «cor/cuore »: il ricordare è, perciò, un «riportare al cuore», facendo rivivere nella memoria il passato.
Ebbene, nella concezione biblica il «memoriale» è ancora più forte e intenso e si intreccia con la liturgia e la sua efficacia: esso indica un’azione salvifica divina che si è compiuta nel passato, ma il cui effetto e la cui presenza perdurano nel tempo e quindi anche nel presente, affacciandosi persino sul futuro. Esemplare è appunto la celebrazione della pasqua che ricorda l’evento antico della liberazione dalla schiavitù egizia, ma che viene ripetuta ogni anno perché Dio continua ad assicurare il dono della libertà al suo popolo.
Analogo valore è assegnato alla pasqua di Cristo. In questo caso il rito è l’Eucaristia che rende presente ed efficace la morte e risurrezione di Gesù. Non per nulla l’ultima cena è segnata da queste sue parole: «Questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me… Questo calice è la Nuova Alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me» (Luca 22,19; 1Corinzi 11,25). Il «memoriale» è dunque ben diverso da una pallida commemorazione patriottica o da un rituale civile e familiare, segnato forse dalla nostalgia per fatti o persone ormai sepolti nella polvere del passato. Il «ricordare» biblico è presenza, è l’eternità che penetra nel tempo e ciò che è eterno non si stinge e non si estingue. È per questo che la preghiera biblica è «ricordare gli anni lontani… ricordare le gesta del Signore, ricordare le sue meraviglie d’un tempo» (Salmo 77,6.12), nella certezza che esse sono ancora in azione e offrono di nuovo salvezza e grazia.
Il «ricordare» diventa così un appello a tener vivo da parte dell’uomo il legame di alleanza che lo unisce al Signore. In questa luce si comprende perché nel libro del Deuteronomio si ribadisca a più riprese l’imperativo di «ricordare» i comandamenti divini per renderli efficaci nella vita quotidiana e nelle scelte morali. È interessante notare come questo «ricordo» intrecci l’atto del Dio salvatore e la fedeltà dell’uomo salvato: «Ricordati che sei stato schiavo nel paese d’Egitto e che il Signore Dio ti ha fatto uscire di là con mano potente e braccio teso; perciò il Signore tuo Dio ti ordina di osservare il giorno di sabato» (5,15).
In pratica il verbo «ricordare» è la parola della fede e il «dimenticare» quella dell’apostasia: «Hai dimenticato Dio tuo salvatore e non ti sei ricordato della Roccia, tua fortezza» (Isaia 17, 10). In un’epoca così «smemorata » come è la nostra, l’appello biblico a ricordare diventa un invito alla ducia nel Dio che non abbandona e che «ricorda» le sue opere rendendole vive, operanti e presenti nella nostra storia e nella nostra liturgia.